COMUNICATO DEL DIRETTORE GENERALE AGRICOLTURA
Richiesta di registrazione DOP Pecorino dell'Appennino Reggiano.
Il Direttore generale Agricoltura comunica che il Consorzio per la
valorizzazione dei prodotti dell'Appennino - Con.V.A - Via Roma n. 79
- 42035 Castelnovo ne' Monti (Reggio Emilia), ha presentato alla
Regione Emilia-Romagna ai sensi dell'art. 5 del Regolamento CE
2081/92, la richiesta di registrazione del marchio DOP Pecorino
dell'Appennino Reggiano.
Secondo quanto previsto dalla deliberazione della Giunta regionale n.
1273 del 15 luglio 1997 si procede alla pubblicazione della scheda
tecnica riassuntiva relativa al disciplinare di produzione del
prodotto.
La documentazione resta a disposizione presso il Servizio regionale
Valorizzazione delle produzioni per un periodo di trenta giorni
successivi alla data di pubblicazione, valido per la presentazione di
eventuali motivate opposizioni.
Per informazioni rivolgersi all'Ufficio Qualificazione delle
produzioni - Gloria Savigni - tel. 051/284466 e-mail:
gsavigni@regione.emilia-romagna.it.
IL DIRETTORE GENERALE AGRICOLTURA
Dario Manghi
Scheda riepilogativa
Regolamento (CEE) 2081/92 del Consiglio
"Pecorino dell'Appennino Reggiano"
(N. CE...) DOP(X)
1. Servizio competente dello Stato membro
Nome: Ministero delle Politiche agricole e forestali Dipartimento
della qualita' dei prodotti agroalimentari e dei servizi Indirizzo:
Viale XX Settembre n. 20 - 00187 Roma, telefono 0646655106.
2. Richiedente
2.1 Nome: Consorzio per la valorizzazione dei prodotti dell'Appennino
- Con.V.A.
2.2 Indirizzo: Via Roma n. 79 - 42035 Castelnovo ne' Monti (RE) -
Italia - telefono +39.338.69.61.226 - Fax + 39 (0)522.810.833 -
e-mail:endrighi.emiro@unimore.it; g.arlotti@tuttomontagna.it.
2.3 Composizione: Produttori/trasformatori (X ) altro.
3. Tipo di prodotto: Classe 1.3: Formaggi
4. Descrizione del prodotto (sintesi delle condizioni di cui
all'articolo 4, paragrafo 2)
4.1 Nome: Pecorino dell'Appennino Reggiano.
4.2 Descrizione: La denominazione "Pecorino dell'Appennino Reggiano"
e' riservata al prodotto avente i requisiti fissati con il presente
disciplinare con riguardo ai metodi di lavorazione ed alle
caratteristiche organolettiche e merceologiche derivanti dagli usi e
costumi della zona di produzione delimitata.
Si produce in prevalenza da marzo a settembre, ma puo' essere
prodotto anche nei restanti mesi dell'anno. La denominazione di
origine "Pecorino dell'Appennino Reggiano" e' riservata al formaggio
avente le seguenti caratteristiche: formaggio a pasta tenera o a
pasta semidura, prodotto esclusivamente con latte di pecora intero;
l'alimentazione base del bestiame ovino deve essere costituita da
foraggi verdi o affienati provenienti dai pascoli naturali della zona
con eventuali integrazioni di fieno e di mangimi semplici concentrati
e/o mangimi composti integrati.Si riconoscono due tipologie di
"Pecorino dell'Appennino Reggiano":
A. a pasta tenera (ottenuto da latte sottoposto a processo di
pastorizzazione) che puo' essere consumato prima dei 60 giorni di
stagionatura (ai sensi della regolamentazione vigente), e comunque
non prima dei 30 giorni dalla data di produzione;
B. a pasta semidura (ottenuto da latte non sottoposto a processo di
pastorizzazione) che puo' essere consumato solo dopo i 90 giorni di
stagionatura.
E' usato come formaggio da tavola o da grattugia a seconda dell'eta'
di stagionatura.
Il Pecorino dell'Appennino Reggiano presenta le seguenti
caratteristiche:
- forma cilindrica a facce piane con scalzo leggermente convesso;
- dimensioni: diametro delle facce da 15 a 22 cm, altezza dello
scalzo da 7 a 11 cm con variazioni in piu' o in meno in entrambe le
caratteristiche in rapporto alle condizioni tecniche di produzione
fermo restando che lo scalzo non deve mai superare la meta' del
diametro;
- peso: da 1 a 2,5 kg;
- aspetto esterno: crosta di colore bianco-giallo pastello con varie
tonalita'; per il tipo a pasta semidura di colore tendente piu' o
meno al bruno, in funzione della durata della stagionatura e della
presenza di muffe grigio-verdi;
- colore della pasta: dal bianco a color paglierino con l'avanzare
della stagionatura. E' considerata segno di tipicita' la presenza di
eventuali riflessi sottocrosta (in controluce) verdi;
- struttura della pasta per il tipo a pasta tenera: pasta a struttura
compatta, moderatamente resistente al taglio, con eventuale moderata
occhiatura anche non regolarmente distribuita;
- struttura della pasta: pasta a struttura compatta e tenace al
taglio per il tipo a pasta semidura con eventuale minuta occhiatura
non regolarmente distribuita;
- sapore: fragrante accentuato, dolce, leggermente salato e
debolmente piccante quello a pasta semidura;
- grasso sulla sostanza secca: per il prodotto stagionato non
inferiore al 40% e per il prodotto fresco non inferiore al 45%.
4.3 Zona geografica
La zona di produzione e di stagionatura del Pecorino dell'Appennino
Reggiano comprende: l'intero territorio dell'Appennino Reggiano cosi'
come definito dai Comuni della Comunita' Montana (Baiso, Busana,
Collagna, Casina, Castelnovo ne' Monti, Canossa, Carpineti,
Ligonchio, Ramiseto, Viano, Vetto, Villa Minozzo, Toano).
4.4 Prova dell'origine
La pastorizia e' praticata da secoli sull'Appennino reggiano;
l'allevamento ovino e la connessa produzione del formaggio pecorino
ha assunto un peso socioeconomico non trascurabile per la vita delle
popolazioni. La frugalita' e la rusticita' degli ovini, animali a
triplice attitudine (latte, carne, lana), hanno sostenuto il cammino
degli insediamenti umani fin da epoche remote.
I Liguri, che troviamo ancora presenti nelle parti piu' alte
dell'Appennino sino al II secolo a. C., erano allevatori di cavalli,
muli e bestiame in genere, produttori di lane ruvide, di pellami e di
miele, cosi' come li racconta lo storico greco Strabone, vivente
all'epoca della nascita di Cristo. Nel periodo precedente si possono
ipotizzare soltanto insediamenti sporadici (per spedizioni militari),
o presenze saltuarie per la caccia e per la pesca.
L'insediamento romano lascio', spesso, immutate le popolazioni
insediate sull'alto Appennino: era mirato, piuttosto, al controllo
dei valichi che congiungevano la Pianura Padana al Mar Tirreno.
Nell'epoca della calata delle popolazioni longobarde, a partire dalla
fine del Cinquecento e sino al Mille, in Appennino arrivarono a
scontrarsi due culture, cosi' come testimonio' il Limes Bizantinum,
il confine che proprio nell'Appennino le divideva. Da un lato,
appunto, si insediarono gli usi e le tradizioni delle popolazioni
Longobarde, collegate alla cultura zootecnica dei Galli, incentrata
sull'allevamento del maiale nero (una sorta di cinghiale domestico)
come animale da carne, unitamente all'introduzione di nuove vacche da
latte, come le vacche rosse destinate a diventare la moderna razza
reggiana, e la razza grigia o montanara, scomparsa nella prima meta'
del Novecento. Dall'altro versante del limes permane la cultura dei
Bizantini, gli ultimi Romani, ancora incentrata, per quanto
concerneva la zootecnia, sull'allevamento della pecora, cosi' come
nella vicina Romagna bizantina. Due fenomeni che, a distanza di oltre
mille anni, lasciano ancora gli ultimi segni sul territorio. Non a
caso, negli odierni comuni al tempo sotto l'egida bizantina, permane
la cultura dell'allevamento della pecora, contrapposto
all'allevamento di vacca e maiale, piu' diffusi nei possedimenti dei
bizantini, e' il caso di Baiso, di alcuni terreni dei Carpinetano,
dei comuni del Crinale. Addirittura nel Baisano ancor oggi si produce
un insolito prodotto autoctono per eccellenza: il prosciutto di
pecora. E' denominato Cushot ed e' un prodotto tipico rinomato in
queste zone. La prima documentazione storica di insediamenti di
abitanti nelle zone appenniniche puo' essere fatta risalire intorno
all'Ottocento - Novecento; gli stanziamenti maggiormente documentati
sono situati lungo il corso del fiume Secchia e nelle valli
convergenti allo stesso corso del fiume. Nella stessa linea possono
essere documentate presenze e insediamenti significativi lungo le
strade commerciali e militari sull'asse Nord-Sud, dalla valle del Po
al Mar Tirreno, attraverso importanti passi appenninici (Passo del
Lagastrello, Passo del Cerreto, Passo di Pradarena, Passo delle
Radici).
La situazione dopo l'anno Mille
Una documentazione storica precisa la desumiamo unicamente da
documenti scritti di cui abbiamo testimonianza grazie alle pergamene
delle Abbazie del territorio.
L'influenza delle Abbazie benedettine (Marola, Canossa, cui e' da
aggiungere San Prospero, con sede in citta') nella montagna, dal
Mille al Millequattrocento, fu notevole anche per la zootecnia. Si
puo' dire che i Benedettini costituirono la prima presenza che
realmente porto' un mutamento di vita, in particolare nell'Alta valle
del Secchia. Non solo in campo economico, ma anche civile,
contribuendo al sorgere di nuovi insediamenti di agricoltori e
pastori, e soprattutto religioso con una cura pastorale assidua che
consolido' il Cristianesimo (forse portato dai Bizantini). La cultura
benedettina spingeva le abbazie ad essere economicamente indipendenti
e, quindi, poteva fare tesoro degli insegnamenti e degli usi anche di
culture opposte, come quella bizantina e longobarda, anche se arrivo'
a prediligere l'allevamento del bovino, sia da lavoro che da latte, e
del suino.
E' comunque certo che, in montagna, fin dall'inizio del secolo XI gli
ovicaprini sono gli animali dominanti per la produzione di latte e
formaggio. Donizone, il biografo di Madide, colloca sull'Appennino
Reggiano i pascoli di Publio Virgilio Marone (Marola = Maronis aula).
La tesi e' molto discussa dagli storici, ma indipendentemente da come
possa essere risolta, Donizone, vivente Madide, attesto' che
sull'Appennino era fiorente la tradizione secolare dell'allevamento
della pecora, con le relative "industrie".
A quei tempi il formaggio di pecora, nel parlato locale, e'
denominato "caseo" (in latino "caseus"), cioe' cacio. Il termine di
caseo o cacio sta ad indicare una produzione di piccole dimensioni,
per ottenere la quale non sempre e' necessario l'impiego di appositi
stampi (le odierne fascere) per conferirvi appunto la forma, ma
bensi' di piccole cascine. Una ricerca di Gabriele Arlotti, del 2003,
accerta che nei dialetti del crinale appenninico gli stampi impiegati
per dare forma alla cagliata, ottenuta da latte di pecora, si
chiamano esclusivamente "cashinii".
La forma, invece, indica il contenitore di una cagliata di volumi
maggiori, come quella ottenuta dal latte di vacca. A tutt'oggi nel
parlato delle popolazioni locali resta proprio il termine "forma"
come elemento distintivo dal formaggio di vacca. Questo perche',
verosimilmente subito dopo il Mille, le vacche piu' produttive di
latte rispetto alle pecore, sono impiegate non solo come forza
motrice, ma per la produzione di latte. Il prodotto trasformato viene
fabbricato in formato piu' grande per il quale, sicuramente, si rende
necessario l'impiego di apposite e grosse fascere (altrimenti dette
forme), affinche' la cagliata, appena estratta, possa acquisire la
caratteristica forma; nel linguaggio del luogo il "formadio" indica
il prodotto del latte di vacca (e il termine forma per indicare
un'unita' di formaggio integra). Nel 2002 tra le pergamene
dell'Abbazia di Marola e' stata rinvenuta la prima citazione (in
assoluto) del progenitore del Parmigiano Reggiano: il "formadius", e'
del 13 aprile del 1159.
Questa distinzione e' particolarmente utile perche' consente di
reperire, in centinaia di pergamene (abbazia di Marola, abbazia di
Canossa,...), la diffusione e la distribuzione della produzione di
pecorino col nome di cacio o, diversamente, formaggio di pecora.
Anche se i monaci benedettini indirizzarono la zootecnia verso
l'allevamento di bovini e di suini, la "quantita'" di citazioni del
termine "cacio", tra le pergamene delle abbazie, consente di
affermare che il pecorino nell'Appennino reggiano era il formaggio
principe e dominante, cosi' come in larga parte d'Italia. Il fatto
che dal Millecento si sia cominciato a produrre anche in montagna
formaggio grana di vacca, non ha certo scalfito l'egemonia del
formaggio di pecora che si e' protratta sino alla fine del ventesimo
secolo. Lasciti testamentari, documenti notarili, fatti di cronaca:
sono moltissimi i documenti che raccontano la storia di questo
prodotto, sempre presente nei secoli.
Nei secoli XII e XIII, i grossi allevamenti zootecnici, come quelli
di bovini e maiali, potevano sussistere solo presso aziende
monastiche o di grosse famiglie feudali. Appare pero' una netta
differenza tra monaci e famiglie feudali. I primi hanno un'indubbia
preferenza per i bovini, soprattutto dove essi erano presenti come
nei territori del Cerreto, in particolare al Livello di Nasseta
(oltre Cinquecerri sin sotto al Cerreto e al Cavalbianco). Dove
invece le abbazie ricevono soltanto donazioni di piccoli appezzamenti
di terreno - e dove sono insediate le grosse famiglie feudali -
troviamo il persistere della pecora: cosi' a Vallisnera, a
Camporaghena, a Crovara, a Cerre' Sologno, Cerreto Alpi, Valbona,
localita' dove l'abbinamento pecora/caseo e' piu' che esplicito. Sono
terre del crinale... ancora portatrici dei modelli bizantini.
In mancanza di quella forte organizzazione anche tecnologica, che
caratterizza l'intervento benedettino, il crinale "laico" preferisce
la pecora che non richiede particolari specializzazioni e,
soprattutto, puo' svernare nelle maremme. Senza dire che i suoi
prodotti sono particolarmente richiesti nelle citta' toscane dove
impera l'Arte della Lana e dove l'"ottimo cacio pecorino" del Cerreto
ha buona fama. Oltre a questi fondamenti storici, a cosa si deve
quest'egemonia della pecora, in particolare nel Crinale, sino al
ventesimo secolo? Come e' noto la pecora ben si prestava a sfruttare
le modeste produzioni del maggese e delle aree piu' declivi e
marginali. A differenza dei bovini, inoltre, gli ovini abbisognano di
modesti quantitativi foraggieri per produrre latte; aspetto non
trascurabile in ambienti dove i campi, prima di tutto, dovevano
servire alle esigenze alimentari dell'uomo (granaglie, orti). La
pecora, oltre alla carne e al latte, forniva l'indispensabile lana,
per vestiari e, per i piu' abbienti, nei materassi.
Fra il 1198 e il 1222 si ha notizia di liti tra i monaci di Marola,
che hanno beni e un priorato al Cerreto, e i signori di Vallisnera.
Nel 1.222 si dice espressamente che "i monaci non devono pagare ai
Vallisneri tributi ne' in pane, formaggio, giuncate, castrati o
altro...". La giuncata e' un particolare tipo di formaggio di pecora,
prodotto mettendo la cagliata appena estratta in giunchi di vimini.
Nell'anno 1323, nell'atto di sottomissione del Cerreto delle Alpi a
Castruccio Castracani degli Antelminelli, signore di Lucca, i
cerretani accettano di pagare una tassa annua di sottomissione di
quattrocento ottimi formaggi pecorini (centinaria quattuor optimi
casei pecorini). Una richiesta simile, secca e indiscussa, da parte
di Castruccio fa ritenere che gia' il pecorino dei pastori cerretani
avesse "ottima" fama in Toscana (cfr.) Giuseppe Giovanelli, Il
Cerreto delle Altpi, Ed. Parrocchia di San Giovanni Battista, 1991,
pagg. 26-27; 153-155).
Tra il Quattrocento e il Cinquecento alla podesteria di Castelnovo
ne' Monti spettava il compito di amministrare la giustizia e di
sovrintendere annualmente alla manutenzione delle strade. Ai primi
del '500, tra le carte conservate presso l'Archivio di Stato di
Modena, spicca un documento in cui si segnalano i prodotti della
montagna reggiana inviati a Modena per ingraziarsi il duca (che
nominava il podesta'): "quattro capretti smagriti e 18 formarette di
formaggio pecorino", "oglio dolce per l'insalata e un castello di
prognoli secchi, quattrocento lumache, quattro tartofelli, due
pernici e due vitelli" (cfr. G. Badini. A. Fresta, Vicende storiche
dell'Appennino Reggiano, Ed. Cassa di Risparmio, 1987, pag. 104).
Il 21 luglio 1503 il Duca Ercole I di Modena concede agli uomini del
Cerreto e di Collagna il privilegio di portare a svernare i loro
bestiami, in primis gli ovini, nelle basse di Ferrara, Argenta e
Nonantola senza pagare alcun dazio ("Omnes et singulas suas oves et
pecudes, capras, hedos, agnos, hircos atqui castratos et generaliter
omnia eorum arnimalia greges atque armento"), unitamente al
privilegio anche per il rientro con agnelli e formaggi "...pro' eorum
fetibus, lana et caseo") (cfr. Giuseppe Giovanelli, Il Cerreto delle
Alpi, Ed. Parrocchia di San Giovanni Battista, 1991). Questo
privilegio e' confermato dai successori almeno per tutto il sec.
XVII. In questo privilegio si puo' anche vedere il tentativo degli
Estensi di dirottare la transumanza alto appenninica verso le loro
terre, sottraendola alla Toscana dove risulta antica e consolidata,
anche per ragioni etniche; infatti le popolazioni dell'alto Appennino
reggiano provengono dall'etnia ligure.
Conservato nel "Gridario" dell'Archivio di Stato di Reggio Emilia, e'
il prezioso documento della "Tassa ed ordini da osservarsi per li
osti e per quelli che allogeranno la Cavalleria della Maesta' del Re
cattolico che dovra' passa per l'illustris. Citta' di Reggio", dove
si attesta che, nel 1618, il prezzo per il formaggio di pecora buono
e' fissato in "12 lira soldi".
Negli statuti di Castelnovo Garfagnana si legge che nel novembre del
1630 erano stati contati, provenienti da 11 comuni dell'Appennino
Reggiano, ben 651 pastori e aiutanti, quasi 15.000 pecore, piu' di
9.000 capre e 650 cavalli (L. Rondinini, Vicende storiche
dell'Appennino Reggiano, Ed. Cassa di Risparmio, 1987, pag. 221).
La Val d'Asta e il versante Ligonchiese erano votati alla tradizione
della pastorizia. Lo testimonia una lite che sfocio' alla fine del
1600 a una vera e propria rapina a mano armata da parte dei pastori
di Piolo (Ligonchio) di 250 pecore ai danni dei pastori di Febbio.
Nel 1699 da una descrizione del Cerreto si apprende che: "... vi
hanno molte bestie grosse e minute", dove per minute sono da
intendersi gli ovicaprini.
Sono innumerevoli i documenti delle diverse parrocchie che attestano
la presenza del pecorino tra i beni delle genti montane. Ad esempio,
la Cronaca di Nebbiara (Archivio Privato Magawly, Reggio Emilia), il
parroco don Giovanni Grossi nel 1797 annota i doni portati a Borzano
(Albinea) dalla serva dei Montecchi e tra le altre cose spiccano "due
formaggi di pecora".
Gli ultimi due secoli
Nel 1800 Filippo Re (Reggio Emilia, 1767-1817, illustre agronomo che
insegno' in diverse Universita' italiane) nel suo testo documentativo
"Viaggio Agronomico per la montagna reggiana", stima la presenza
delle pecore in Appennino in 67.111 (pag. 50). A pagina 46 della sua
opera, richiama specificatamente la produzione del formaggio e scrive
testualmente: "...Per l'ottima qualita' dei pascoli hanno belli
animali bovini ed armento lanuto che fornisce un formaggio
squisito".
Il 30 giugno del 1811, in epoca napoleonica, l'Appennino e' in parte
sotto il Dipartimento del Crostolo nella Repubblica Cispadana. Il
Direttore Generale della Pubblica Istruzione scriveva da Milano al
Prefetto del Dipartimento del Crostolo affinche' collaborasse per
"raccogliere tutte le notizie necessarie, onde formar si possa
un'idea esatta sui costumi, sui caratteri, sulle opinioni e sui
pregiudizi o superstizioni ancora vigenti in codesto Dipartimento".
Il 20 agosto il Prefetto inviava ai Viceprefetti e ai cancellieri del
Censo un'apposita circolare, nella quale venivano posti quattro
quesiti circa i punti suddetti. Nell'articolata risposta, spedita da
Villa Minozzo, apprendiamo che "Fra l'anno si tiene la sola pratica
di cantare qualche poesia sacra o profana nel mese di maggio, in
segno di allegrezza per l'incominciare della bella stagione e si
eseguisce da diverse persone unite le quali con violino passano da
una famiglia all'altra, cantando delle poesie che volgarmente si
chiamano "Cantare maggio" e ricevono delle offerte in formaggio, ova,
denaro e prodotti che vengono erogati come si fa credere, nel far
celebrare messe per le anime del Purgatorio - (G. Badini. A. Presta,
Vicende storiche dell'Appennino Reggiano, Ed. Cassa di Risparmio,
1987, pag. 109).
Nel 1832 nel suo Vocabolario reggiano - italiano, Giovanni Aliai,
alla voce dialettale "Jurmaj edpegra" fa corrispondere il significato
italiano di "pecorino".
Nel 1849 la Statistica generale degli Stati Estensi, compilata dal
dottor Carlo Roncaglia, stima i quantitativi di produzione di
formaggio pecorino e formaggio grana di vacca cosi' distribuita nei
vari comuni reggiani: a Castelnovo ne' Monti si producono 28.200 Kg
di pecorino, contro i 40.600 di vacca; a Busana 33.100, contro 16.000
di vacca; a Villa Minozzo 20.333, contro 16.667, a Carpineti 10.900,
contro 11.700. Nel totale della provincia sotto la giurisdizione
estense si producono 137.339 kg di pecorino contro 1.722.525 kg di
formaggio vaccino. Il prezzo medio del formaggio pecorino in montagna
e' 0,96 lire al chilo, mentre in pianura e' di 1,2 lire. Il prezzo
medio del formaggio vaccino e' di 1 lira e in pianura di 0,60 lire in
montagna. In definitiva, il prezzo medio del pecorino (1,05) e'
ancora piu' alto del formaggio vaccino. Comunque i dati sulle
produzioni attestano un'evoluzione importante: gia' da tempo in
provincia di Reggio Emilia e' avvenuto il sorpasso nella produzione
di formaggio di vacca rispetto a quello di pecora, mentre i prezzi
dei due sono ancora equiparabili.
Un chilo di lana costava pero' il doppio di un chilo di pecorino.
Oggi, centocinquant'anni piu' tardi dalla statistica ricordata, la
lana viene distrutta dai pochi pastori rimasti, in quanto il suo
utilizzo non trova nessuna convenienza economica. Nel 1886 A.
Balletti e G. Gatti nel loro testo "Le condizioni dell'economia
agraria nella provincia di Reggio Emilia" (Tipografia di Cesare
Calderoni e Figlio, Reggio Emilia) a pagina 78 spiegano che a Reggio
Emilia la razza pecorina e' indigena - probabilmente trattasi della
Cornella reggiana n.d.r. - e se ne distinguono due tipi: "nella zona
piu' montuosa, dove e' maggiore il numero degli ovini, la razza ha
taglia piu' alta, maggiore corpulenza, lana lunga, discretamente
fine, produzione maggiore di latte. Nella parte inferiore della zona
montuosa e nella zona collinare, dove i greggi sono meno numerosi,
gli animali hanno taglia piu' piccola, lana lunga, grossolana, piu'
scarsa e' la produzione del latte, meschina quella della carne.
Questa varieta' ovina e' conosciuta anche nell'Appennino parmense e
piacentino ed altrove ed e' conosciuta sotto il nome, appunto, di
razza piacentina. - (...). le stazioni montanine per il pascolo delle
percore sono piu' frequenti nell'alta valle dell'Enza e del Secchia"
- la cultura bizantina lascia ancora il suo segno a distanza di 1.000
anni n.d.r. - "Il formaggio pecorino in queste localita' gode anche
di qualche credito ed e' di facile smercio".
Nel 1887, il carteggio amministrativo (conservato presso l'Archivio
di Stato di Reggio) sul prezzo medio dei prodotti del Municipio di
Reggio Emilia ci informa che il prezzo di 1 kg di "Formaggio
Pecorino" e' di lire 2,15 ("prezzo compreso di dazio"), contro le 3
lire per il formaggio grana, di vacca, se di prima qualita' o di
1,52, se di seconda qualita'. Il burro costa 2,46 lire al
chilogrammo. L'anno dopo il prezzo del formaggio pecorino scende a
1,85 lire, contro le 2,77 lire del formaggio di prima qualita' di
vacca, le 1,88 lire del formaggio di 2 qualita' di vacca, le 2,50
lire del burro. Il pecorino, in definitiva, inizia a "valere" meno
del formaggio di vacca; questa condizione perdurera' sino ai primi
anni del Duemila, quando si assiste a un nuovo sorpasso: Pecorino
dell'Appennino Reggiano 12-14 Euro/Kg, Parmigiano Reggiano 9-11
Euro/Kg.
Cosi' come nel Settecento e nell'Ottocento, l'allevamento della
pecora, ancor prima della vacca, e' diffuso quasi in ogni famiglia
contadina. La produzione di cacio pecorino e' comunque un prodotto
artigianale dei 160 pastori, circa, censiti nel 1881, quando in
Appennino si stima la presenza di 50-60 mila ovini, meno della meta'
allevati nei grossi greggi transumanti, gli altri distribuiti in
nuclei di meno di dieci capi per famiglia contadina.
Nel gennaio del 1921 si costituisce sull'Appennino Reggiano la "La
Lega dei pastori" con sede estiva a Collagna e invernale a Venturina
(Campiglia Marittima). Questi sono gli obiettivi della lega: "a)
Migliorare progressivamente le condizioni dei propri iscri'tti
affratellandoli con un mutuo vincolo di solidarieta' per il
miglioramento individuale e di classe morale ed economico
nell'esercizio dell'industria pastorizia e delle altre (industrie) ad
essa pertinenti (art. 4 Statuto); b) Vendere possibilmente in comune
i prodotti dell'industria pastorizia come formaggi, carne, lane ecc.
per eliminare dal mercato a benefi'cio dei consociati, tutti gli
intermediari che decurtano il valore di quelli".
Nel 1944, apprendiamo da Luigi Camparini, Cucina tradizionale
reggiana, Libreria Nironi e Prandi, Reggio Emilia, 1944, pag. 12-13 e
nota 1, che nel Reggiano: "...Oltre al grana si fanno da noi altre
specie di formaggi che sono, anch'essi, autentiche particolarita'
nostrane. Prima che incominci la stagione casaria (Aprile-Ottobre),
ossia prima che si inizi la lavorazione cumulativa del latte vaccino
- quando, cioe', la sua produzione e' ancora assai ristretta, se ne
fa una lavorazione familiare, comunemente giornaliera, talora anche
di "mo'unta", scremandolo e ottenendo formaggetti a pasta cruda, ma
consistenti, di pochi ettogrammi l'uno, raramente di un peso
superiore al chilogrammo, denominati senz'altro "furmuajin", che sono
assai apprezzati e che comunemente si mangiano dopo poche settimane,
perche' non si prestano all'invecchiamento. Analoghi formaggetti si
fanno col latte di pecora, ma integrale, durante tutto l'anno - non
potendosi fare la lavorazione cumulativa del latte di pecora; essi
sono indicati col nome di "furmajin ed pe'gra". Altresi' si usa
-segnatamente tra una stagione casearia e la successiva, vale a dire
dal Novembre al Marzo - fare formaggetti di latte vaccino misto a
pecorino, lavorando il miscuglio nello stesso modo che si usa per il
latte vaccino; formaggetti che vengono indicati, particolarmente in
commercio, col nome improprio di "furmajin ed pe'gra". Talora col
latte coagulato, accagliato, rappreso, senza restringerlo, vale a
dire con la "cagie'da" (giuncata) pura naturale, si fa un formaggetto
di pasta assai molle e dolce detto "stracchi'n" (raveggiolo), che
deve essere mangiato quasi subito, perche' diversamente marcirebbe.
E' un prodotto analogo allo "stracchino" che si fa in Lombardia, ma
e' meno tenero, benche' morbido e dolce, anche di quello detto
"robiola", particolarita' di Melzo. Ritengo che l'Ariosto volgesse
"la mente ai nostri furmajin", di qualunque specie, quando scriveva
nell'Orlando Furioso: "...e dalle irsute mamme il latte spreme/che in
giro accolto poi restringe insieme". Con la panna ("pana") si fa il
burro, ma dal siero ("se'r") si ricava la ricotta: quella ottenuta
dal "se'r" vaccino si indica col nome, senz'altro, di ricotta, e per
solito, si dispone in particolari "caivagnin", o cestini di vimini, i
quali servono a dare ad essa non solo una forma, ma altresi' un
particolare disegno od aspetto esteriore; quella di pecora e'
denominata "pue'ina" o "pui'na" e si dispone in diversi modi. Il
residuo dello siero, dopo averne ricavata la ricotta, vien detto
"sco'tta", e si da' per nutrimento ai maiali".
Nel 1955, sul "Pescatore reggiano", e' pubblicato un articolo di
Mario Guardasoni su "Le pecore nell'Appennino Reggiano". In esso si
legge un elogio della razza nostrana (o cornella bianca), come buona
produttrice di latte per formaggio. Ma Collagna, Civago e Febbio
erano orientati da un po' di tempo verso la razza massese per la
buona produzione di latte. Nel 1955 nell'Appennino si contavano circa
50.000 ovini, di cui piu' di quattro quinti erano ancora transumanti.
Era una tradizione ancora dettata dalla necessita' dell'utilizzazione
dell'esistente. L'urbanizzazione, che ha ridotto o isolato i pascoli
dove poter "svernare", in particolare in pianura, e la mancanza di
ricambio generazionale, spesso imposto piu' che da motivi demografici
dal modesto riconoscimento sociale di tale lavoro, peraltro non
faticoso ma impegnativo, hanno via via determinato la progressiva e
inesorabile contrazione della pastorizia transumante. Nell'Ottocento
e, in particolare, ai primi del Novecento l'allevamento della vacca
si avvia a scalzare il ruolo dominante della pecora nella zootecnia
appenninica; questo, naturalmente, avviene in contemporanea alla
diffusione del Parmigiano Reggiano e dei primi caseifici sociali nei
quali si produce.
Le prime nebbie autunnali (cfr. L. Rondinini, 1987 op. cit.) per i
pastori del crinale significavano l'inizio della transumanza: si
abbandonavano i pesanti lavori dei campi e dei boschi e si partiva
per la Maremma, per i porti di Genova, La Spezia, Livorno con
destinazione Isola d'Elba, Sardegna, Corsica, da un lato, ma anche
verso le aree golenali del Po, dall'altro. Il ricercatore Filippo Re,
nel suo "Viaggio agronomico per la montagna reggiana" del 1800, ci
segnala come i pastori, pur guardati con timore dai contadini,
stabilivano con i proprietari terrieri rapporti duraturi nel tempo:
in cambio dell'erba e dei pascoli essi davano ai proprietari latte e
formaggio e i loro campi risultavano concimati dalle greggi stesse,
rinchiuse in appositi recinti.
Fino agli anni Cinquanta - Settanta le attivita' pastorizie del
comprensorio reggiano hanno mantenuto una dimensione rilevante con
alcuni elementi caratterizzanti: i pastori, tutti ancora autoctoni
reggiani, praticavano con regolarita' la transumanza, prima nelle
zone della Bassa reggiana, per poi allargarsi in zone sempre piu'
ampie fino ad arrivare nel Mantovano. La maggiore parte realizzava un
formaggio a carattere locale; le dimensioni medie delle aziende erano
ridotte (raramente le greggi superavano le cinquanta unita') e la
razza largamente presente era la massese insieme alle meno diffuse
Cornella e Cornetta, razze, quest'ultime, oggi in via d'estinzione ma
oggetto di progetti di recupero. Nel 1980 Alcide Spaggiari in: "Le
opere e i secoli - Storia dell'artigianato a Reggio Emilia",
AGE-Grafico Editoriale, Reggio Emilia, 1980, pag. 251, scrive: "e'
un'attivita' familiare, quindi artigiana nonostante alcuni tentativi
di industrializzazione, la produzione del cacio pecorino, ancora
notevole nei piccoli paesi dell'alto Appennino".
La storia recente
Nel 1982 in Appennino Reggiano si contavano ancora oltre 19.000
ovini, in prevalenza da latte. Venti anni piu' tardi, agli inizi
degli Anni Duemila, questo numero si era ridotto al di sotto dei
5.000 capi, in parte da carne. Dai dati ottenuti dagli ultimi tre
censimenti dell'agricoltura si puo' osservare come nella Comunita'
Montana dell'Appennino Reggiano, in un ventennio, il numero di
aziende con allevamenti ovini si sia ridotto di circa un terzo,
mentre il numero di animali allevati si e' ridotto di circa tre
quarti. Nel volgere di quattro lustri ha drasticamente chiuso un
grandissimo numero di aziende sul crinale. Connessi all'abbandono
dell'attivita' agropastorale si sono riscontrati i fenomeni dello
spopolamento e del dissesto idrogeologico. E' quasi del tutto
scomparso il fenomeno del transumanza. Nell'agosto del 2004 Gabriele
Arlotti (Tuttomontagna, n. 106, settembre 2004) intervista l'ultimo
pastore transumante dell'Appennino: e' Santini Giorgio di Valbona di
Collagna, ha 53 anni, vende il latte che produce a un caseificio
privato e dichiara di essere intenzionato a smettere la transumanza
nel volgere di pochi anni, sia per l'incombere dell'eta', sia per
l'accresciuta normativa sanitaria che disciplina e restringe questa
pratica.
Con la transumanza in pochi anni si e' esaurito il millenario
fenomeno di una identita', tradizione, cultura ed economia che aveva
costituito in larga parte le basi per la sussistenza e poi per lo
sviluppo dell'uomo sul territorio appenninico. Merito, soprattutto,
della produzione di un pecorino reggiano che, nei secoli, si era
distinto per il sapore caratteristico dolce e diverso dal piu' famoso
e vicino pecorino toscano.
E' doveroso rilevare come, a differenza del Parmigiano Reggiano, tra
i pastori e' mancata una volonta' comune e condivisa di associarsi,
dare un nome al proprio prodotto e metterlo sul mercato. D'altro
canto, a livello associazionistico, non c'e' stato un input politico
in tal senso. Se il mercato non ha fornito prezzi adeguatamente
remunerativi (per tutto il Novecento il Pecorino dell'Appennino e'
costato meno del Parmigiano Reggiano), si e' drasticamente sentita la
"concorrenza" dell'agricoltura finalizzata proprio alla produzione di
Parmigiano Reggiano. Ne sono stati indice i tanti pastori e i piu'
ancora numerosi figli di pastori che, rimasti in agricoltura, si sono
spostati su questo tipo di produzione. Di contro, quest'evoluzione ha
gettato le premesse per un tipo di attivita' imperniata
sull'allevamento stanziale semibrado, con pascoli locali, ed in minor
misura su quello stallino. Non solo, si e' assistito all'aumento
della dimensione media delle greggi; da allevamenti la cui
propensione era diretta prevalentemente all'autoconsumo
(latte/formaggio e carne) e poco alla produzione di beni destinati al
mercato, si e' progressivamente passati ad allevamenti con 150-200
unita', anche se il numero di pecore complessivamente allevate ha
continuato a diminuire. Quest'evoluzione dell'attivita' di
allevamento ha creato in pianura le condizioni per l'insediamento di
pastori sardi, che hanno portato con se' la razza sarda e la loro
tecnologia di fabbricazione, nonche' l'intensivizzazione della
produzione e il progressivo aumento delle dimensioni aziendali. Cosi'
non e' avvenuto in Appennino, dove sono rimasti attivi allevatori
autoctoni, ancora depositari della cultura e della tradizione
originale dell'ovinicoltura originale di un tempo.
Per preservare questo prodotto tradizionale, potenziale fonte di
reddito nell'avvenuto mercato globale, diversi soggetti hanno
intrapreso diverse azioni di salvaguardia, tutela e assistenza a
partire dagli anni Settanta. Sul fronte del miglioramento delle
produzioni aziendali, in quegli anni, in Regione e nell'Appennino
reggiano, era attiva l'Associazione Regionale Ovinicoltori (ARO), la
quale, agendo anche da raccordo col mondo trasformazione, ha
contribuito a formare una prima coscienza sull'identita' e la
qualita' del prodotto. Grazie all'ARO, in particolare, negli
allevamenti sono stati messi in atto interventi di assistenza
tecnica, finalizzati all'alimentazione e alla gestione delle greggi,
alla difesa sanitaria degli allevamenti (in particolare contribuendo
al contenimento di zoonosi, come la brucellosi), al miglioramento
della qualita' delle produzioni (con analisi sul latte di stalla e
massale). Pur nella riduzione delle aziende degli anni Ottanta e
Novanta, questi interventi di assistenza tecnica hanno avuto il
merito di mantenere gli allevamenti rimasti legati alle buone norme
della pratica della pastorizia.
Negli anni Novanta il Consorzio per la Valorizzazione dei Prodotti
dell'Appennino (CONVA) promuove un'azione fondamentale tesa alla
tutela del nome. Con domanda in Regione, ai sensi della delibera di
Giunta 1800/2000, il nome del Pecorino dell'Appennino Reggiano e'
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (ai se'nsi del
DLG 173/98 e DM 350/99), nell'elenco annuale nazionale dei prodotti
agroalimentari tradizionali. In particolare cosi' il nome e' tutelato
dall'uso privato (non puo' essere registrato da privati), puo' essere
speso ai fini della promozione, puo' agevolarsi di alcune
deroghe,...
Successivamente, promossi dallo stesso CONVA, dall'Unione Generale
Coltivatori di Reggio Emilia, da ARO, con il sostengo della Provincia
di Reggio Emilia sono realizzati dei progetti tesi a:
- consolidare l'identita' e le modalita' di produzione del Pecorino
dell'Appennino Reggiano;
- perfezionare il disciplinare alla luce delle indicazioni recuperate
dai pastori autoctoni e delle vigenti normative sanitarie;
- migliorare la qualita' della produzione del Pecorino dell'Appennino
Reggiano.
Riferimenti bibliografico-documentari allegati
All. 1
Filippo RE, Viaggio agronomico per la montagna reggiana e dei mezzi
di migliorare l'agricoltura delle Montagne reggiane. Con appendice:
Dell'agricoltura delle Alpi Apuane. Manoscritto edito a cura di Carlo
Casali, in "Atti e memorie della Societa' agraria di Reggio
nell'Emilia. Nuova Serie. n. 4" Officine Grafiche Reggiane, Reggio
Emilia, 1927. Il manoscritto originale e' conservato nella Biblioteca
Municipale "Panizzi" di Reggio Emilia. Carte della famiglia Re, Mss.
XCV. B. 6.
All. 2
Giovanni Allai, Vocabolario reggiano - italiano (ad integrazione del
dizionario di Giovanni Denti), Tipografia Torreggiani e Compagni,
Reggio Emilia, 1832, vol. 2, ad vocem "formaggio" "furmaj ed pegra"
(cosi' anche Luigi Ferrari-Luciano Serra, Vocabolario del dialetto
reggiano, Tecnograf, Reggio Emilia, 1989)
All. 3
A. Balletti - G. Gatti, Le condizioni dell'economia agraria nella
provincia di Reggio nell'Emilia, Tipografia di Cesare Calderini e
Figlio, Reggio Emilia, 1886. Pag. 78.
All. 4
Numa Ciripiglia (Luigi Camparini), Cucina tradizionale reggiana,
Libreria Nironi e Prandi, Reggio Emilia, 1944, 12- 13, nota 1.
All. 5
Alcide Spaggiari, Le opere e i secoli. Storia dell'artigianato a
Reggio Emilia, AGE-Grafico Editoriale, Reggio Emilia, 1980, II ed.,
pag. 251.
All. 5 bis
Gino Badini e Aurelia Fresta, Luciano Rondanini Alto Appennino
Reggiano, l'ambiente e l'uomo (Ed. Cassa di Risparmio), 1987, pag.
104, 109; pag. 218.
Documenti archivistici allegati
All. 6
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio comunale, Gridario,
1618.
All. 7
Archivio privato Magawly, Via Dimitrov n. 43 - tel. 0522/280547,
Cronaca di Nebbiara, 1796-1809 di don Giovanni Grossi (fotocopia
dall'originale).
All. 8
C. Roncaglia, Statistica generale degli Stati Estensi, Tipografia di
Carlo Vincenzi, Modena, 1849, pp. 276-277.
All. 9
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio comunale, Carteggio
amministrativo, titolo XXIX, rubrica 4, filza 30, 1877.
All. 10
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio comunale, Carteggio
amministrativo, titolo XXIX, rubrica 4, filza 30, 1877.
All. 11
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio comunale, Carteggio
amministrativo, titolo XXIX, rubrica 4, filza 30, 1878.
4.5 Metodo di ottenimento
Il pecorino a pasta tenera deve essere prodotto a partire da latte
intero di pecora pastorizzato.
Per il pecorino a pasta semidura puo' essere prevista, in particolare
nei mesi estivi, una preventiva termizzazione del latte intero di
pecora a 63 gradi per 5 min, ma e' vietata la pastorizzazione.
Per tutte le tipologie di formaggio e' indicato l'impiego di fermenti
lattici selezionati o naturali in siero o in latte ovino ottenuto
all'interno della zona di produzione.
Il latte deve essere coagulato ad una temperatura compresa tra i 36
gradi (per il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta tenera) e i
39 gradi (per il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura)
mediante aggiunta di caglio, di vitello o di agnello, liquido o in
polvere onde ottenere la coagulazione del latte in un tempo di 20-30
minuti.
Il formaggio deve essere prodotto con una tecnologia caratteristica e
nella lavorazione si provvede alla rottura della cagliata fino a che
i granuli abbiano raggiunto le dimensioni di "granoturco", per il
formaggio a pasta tenera, e di "chicco di riso", per quello a pasta
semidura. Per la preparazione di quest'ultimo la cagliata potra'
altresi' essere sottoposta ad un rialzo termico (semicottura) che
puo' arrivare tra i 42 gradi - 46 gradi C in un tempo di 10-15
minuti.
Terminata la rottura e la semicottura, la cagliata e' sottoposta a
una giacenza sottosiero per un periodo di tempo variabile dai 5 (se a
pasta tenera) ai 20 minuti (se a pasta semidura).
La cagliata viene messa in apposite forme per lo sgrondo del siero
denominate "cascine" (dal dialetto del luogo, "cashiini"). Lo spurgo
secondario e' favorito anche tramite pressatura manuale o apponendo
le cascine le une sopra le altre e alternandole a intervalli
periodici. Altresi' e' indicata la stufatura: le forme sono poste in
un ambiente idoneo a 38 gradi C per 60 minuti o a 30 gradi C per 5
ore. La salatura tradizionale e' effettuata a secco e dura da 1
("Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta tenera) a 2 giorni
("Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura): avviene
salando ogni 12 ore i singoli piatti. Altresi' la salatura puo'
avvenire in salamoia per alcune ore. Il "Pecorino dell'Appennino
Reggiano" e' messo a stagionare in idonei locali, naturali (per il
Pecorino a pasta semidura) o condizionati (per il Pecorino a pasta
tenera), a temperature adeguate alla fase di stagionatura e,
comunque, a umidita' relativa mai inferiore all'80%. Si effettuano
periodiche rivoltature e lavaggi con acqua e sale o siero. Sulla
crosta non si impiegano antifermentativi. Per il "Pecorino
dell'Appennino Reggiano" a pasta tenera dopo l'ultimo lavaggio e'
caratteristica l'oliatura della crosta con olio di oliva o semi vari
o aceto. Il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura,
invece, dovra' formare la caratteristica muffa grigio verde che ne
preserva la struttura e la bonta' della pasta.
Il periodo di maturazione per il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a
pasta tenera si protrae dai 30 giorni ai 3 mesi, per il "Pecorino
dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura si protrae dai 3 ai 12 mesi
(ed oltre).
4.6 Legame
Sono molteplici gli elementi che caratterizzano il Pecorino
dell'Appennino Reggiano, in virtu' di una tradizione consolidata e
giunta sino ai giorni nostri. Essi uniscono fattori naturali e umani
alla storia, alla cultura e alle tecniche di produzione del luogo che
lo rendono esclusivamente ottenibile nel contesto produttivo
dell'Appennino Reggiano, rientrante nel territorio della Comunita'
Montana dell'Appennino Reggiano. Innanzitutto, la prova di origine
dimostra che il pecorino del luogo e' il primo prodotto della
zootecnia da allevamento nell'Appennino Reggiano. Nei secoli e'
prosecutore della cultura bizantina che si contrappone, con marcate
differenze da zona a zona proprio nell'Appennino Reggiano, alla
cultura latina o romanizzata (dei monaci benedettini, ad esempio)
tipicamente incentrata sulla vacca e sul maiale.
Il legame del formaggio di tipo pecorino all'Appennino reggiano e'
citato da innumerevoli documenti storici. Nel 1886 A. Balletti e G.
Gatti scrivono nel loro testo "Le condizioni dell'economia agraria
nella provincia di Reggio Emilia" (Tipografia di Cesare Calderoni e
Figlio, Reggio Emilia), a pagina 78, che a Reggio Emilia della razza
pecorina e' indigena - probabilmente trattasi della Cornella reggiana
n.d.r. - se ne distinguono due tipi: "nella zona piu' montuosa, dove
e' maggiore il numero degli ovini". E piu' tardi, nel 1980, Alcide
Spaggiari in: "Le opere e i secoli - Storia dell'artigianato a Reggio
Emilia", AGE-Grafico Editoriale, Regio Emilia, 1980, pag. 251,
scrive: "E' un'attivita' familiare, quindi artigiana nonostante
alcuni tentativi di industrializzazione, la produzione del cacio
pecorino, ancora notevole nei piccoli paesi dell'alto Appennino".
Il metodo di ottenimento e' caratteristico e riconducibile
essenzialmente e storicamente a queste zone. Il Pecorino
dell'Appennino Reggiano si differenzia dal vicino Pecorino Toscano
perche' la cagliata e' tradizionalmente sminuzzata a dimensioni piu'
fini. "Cascine" e' il nome storico col quale ancora oggi sono
chiamate in Appennino le caratteristiche formelle in cui si mette la
cagliata appena estratta. Inoltre la salatura delle formelle avviene
tradizionalmente o a secco o in salamoia, cosi' come da decenni si
esegue per il Parmigiano Reggiano, che in Appennino ha proprio parte
del comprensorio di produzione. Una tipicita': prima ancora
dell'aggiunta del caglio il latte e' preparato con l'aggiunta di
fermenti (cosi' come avviene per il Parmigiano Reggiano da cui si e'
ereditato questo processo), come quelli naturali del latte o del
siero. L'impiego di latto o siero fermenti, che puo' risultare
inusuale per i formaggi di tipo pecorino, cosi' come pure la salamoia
delle cascine, trovano una specifica spiegazione della condivisione
territoriale del Pecorino dell'Appennino Reggiano con l'areale di
produzione del Parmigiano Reggiano. Formaggio, quest'ultimo che, da
fine Ottocento ai primi del Novecento, ha introdotto proprio questi
elementi caratterizzanti il processo produttivo (sieroinnesto) e la
stagionatura (salamoia in sostituzione della salatura a secco).
Infatti, il Pecorino dell'Appennino Reggiano e' prodotto interamente
al comprensorio di produzione del Parmigiano Reggiano di cui,
indirettamente, ha usufruito dei benefici tecnologici introdotti nel
processo produttivo negli ultimi 150 anni. Queste informazioni sono
confermate dall'indagine (inedita) di studio condotta dal Consorzio
per la valorizzazione dei prodotti dell'Appennino nel 2001 dal titolo
"Valorizzazione dei prodotti della filiera ovina in Appennino": Fase
2 - Acquisizione delle informazioni sui processi produttivi e sul
prodotto, indagine condotta presso 20 pastori-trasformatori
dell'Appennino Reggiano.
Le caratteristiche del prodotto individuate nel disciplinare sono
confermate dallo studio (inedito) condotto dall'Universita' di
Bologna e dall'Unione Generale Coltivatori dal titolo "Tipizzazione
qualitativa e valorizzazione del Pecorino dell'Appennino Reggiano -
Anno 2003", AA.VV. Esso rileva come le caratteristiche salienti di
questo prodotto in Appennino sono:
- aspetto esterno: crosta di colore bianco-giallo pastello con varie
tonalita'; per il tipo a pasta semidura di colore tendente piu' o
meno al bruno, in funzione della durata della stagionatura e della
presenza di muffe grigio-verdi;
- colore della pasta: dal bianco a color paglierino con l'avanzare
della stagionatura. E' considerata segno di tipicita' la presenza di
eventuali riflessi sottocrosta (in controluce) verdi;
- struttura della pasta per il tipo a pasta tenera: pasta a struttura
compatta, moderatamente resistente al taglio, con eventuale moderata
occhiatura anche non regolarmente distribuita;
- struttura della pasta: pasta a struttura compatta e tenace al
taglio per il tipo a pasta semidura con eventuale minuta occhiatura
non regolarmente distribuita;
- sapore: fragrante accentuato, dolce, leggermente salato e
debolmente piccante quello a pasta semidura;
- grasso sulla sostanza secca: per il prodotto stagionato non
inferiore al 40% e per il prodotto fresco non inferiore al 45%.
Queste caratteristiche medie sono cosi' riportate nel disciplinare di
produzione.
Queste caratteristiche sono individuate anche nella ricerca
"Caratterizzazione e valorizzazione del formaggio Pecorino
dell'Appennino Reggiano". Autori Castagnetti G.B., Arlotti G.,
Bertolini L. Pignedoli S., atti 16 congresso nazionale Sipao
(Societa' italiana di patologia e allevamento degli ovini e dei
caprini), pag. 254 Siena, 29 settembre, 2 ottobre 2004.
L'inequivocabile legame del profilo sensoriale del Pecorino
dell'Appennino Reggiano col comprensorio individuato e' dimostrato
nella tesi di laurea "Il Pecorino dell'Appennino Reggiano:
individuazione del profilo sensoriale tipico", Cerioli V., relatore
Fava P., correlatori Iotti M., Carini G., 2003-2004, Facolta' di
Agraria, Corso di studio in Scienze e Tecnologie agrarie, Universita'
degli Studi di Modena e Reggio.
Le qualita' organolettiche e la bonta' del Pecorino dell'Appennino
Reggiano sono testimoniate anche da documenti storici: nel 1886 A.
Balletti e G. Gatti nel loro testo "Le condizioni dell'economia
agraria nella provincia di Reggio Emilia" (Tipografia di Cesare
Calderoni e Figlio, Reggio Emilia) a pagina 78 spiegano che a Reggio
Emilia la razza pecorina e' indigena - probabilmente trattasi della
Cornella reggiana n.d.r. - e se ne distinguono due tipi: "nella zona
piu' montuosa, dove e' maggiore il numero degli ovini (...) il
formaggio pecorino in queste localita' gode anche di qualche credito
ed e' di facile smercio".
E che si tratti di particolarita' nostrane lo conferma, 1944, Luigi
Camparini, in Cucina tradizionale reggiana, Libreria Nironi e Prandi,
Reggio Emilia, 1944, pag. 12-13 e nota 1, che scrive nel Reggiano:
"Oltre al grana si fanno da noi altre specie di formaggi che sono,
anch'essi, autentiche particolarita' nostrane. (...)".
Sul fatto che le particolari condizioni naturali dell'Appennino
Reggiano conferiscono al prodotto le sue peculiari caratteristiche
qualitative e' emblematico il documento storico lasciato da Filippo
Re. Nel 1800 Filippo Re (Reggio Emilia, 1767-1817, illustre agronomo
che insegno' in diverse Universita' italiane) nel suo testo
documentativo "Viaggio Agronomico per la montagna reggiana" a pagina
46 della sua opera, richiama specificatamente la produzione del
formaggio e scrive testualmente:: "...Per l'ottima qualita' dei
pascoli hanno belli animali bovini ed armento lanuto che fornisce un
formaggio squisito". In fatto di forma le caratteristiche peculiari
di forma del Pecorino dell'Appennino Reggiano risultano essere:
- la forma cilindrica a facce piane con scalzo leggermente convesso;
- le dimensioni: diametro delle facce da 15 a 22 cm, altezza dello
scalzo da 7 a 11 cm con variazioni in piu' o in meno in entrambe le
caratteristiche in rapporto alle condizioni tecniche di produzione
fermo restando che lo scalzo non deve mai superare la meta' del
diametro;
- il peso: da 1 a 2,5 kg.
Queste dimensioni medie sono confermate dall'indagine di studio (Fase
2 - Acquisizione delle informazioni sui processi produttivi e sul
prodotto) condotta dal Consorzio per la valorizzazione dei prodotti
dell'Appennino nel 2001 dal titolo "Valorizzazione dei prodotti della
filiera ovina in Appennino": detta indagine e' condotta presso 20
pastori-trasformatori dell'Appennino. Dimensioni ridotte che sono
confermate, nel 1944, da Luigi Camparini, Cucina tradizionale
reggiana, Libreria Nironi e Prandi, Reggio Emilia, 1944, pag. 12-13 e
nota 1, che nel Reggiano: "...Oltre al grana si fanno da noi altre
specie di formaggi che sono, anch'essi, autentiche particolarita'
nostrane. (...) formaggetti si fanno col latte di pecora, ma
integrale, durante tutto l'anno - non potendosi fare la lavorazione
cumulativa del latte di pecora; essi sono indicati col nome 'di
furmaji'n ed pe'gra'".
Il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura si
caratterizza per le caratteristiche muffe grigio-verdi, di ceppi
indigeni, sviluppate sulla crosta: preservano la pasta che deve
stagionare molti mesi. Nella pasta, dal bianco al giallo paglierino,
riflessi verdi sono indicatori di tipicita'. Entrambi questi elementi
sono confermati dallo studio condotto, nel 2003, dall'Universita' di
Bologna e dall'Unione Generale Coltivatori dal titolo "Tipizzazione
qualitativa e valorizzazione del Pecorino dell'Appennino Reggiano -
Anno 2003".
Tutte queste informazioni consentono di dimostrare che il Pecorino
dell'Appennino Reggiano puo' essere prodotto esclusivamente nella
zona identificata.
4.7 Struttura di controllo:
Nome: Dipartimento Controllo Qualita' P.R. Srl, indirizzo: Via
Kennedy n. 18/a - 42100 Reggio Emilia telefono: 0522/93 42 66 - fax:
0522/700260 - e-mail: dcq-pr@dcq-pr.it.
t4.8 Etichettatura
Il Pecorino dell'Appannino Reggiano e' identificato dal marchio
omonimo raffigurato da una testa di muflone stilizzata, coronata dal
nome "Pecorino dell'Appennino Reggiano". Detto marchio e' riprodotto
sull'etichetta di carta apposta su uno dei due piatti della forma. Il
marchio "Pecorino dell'Appennino Reggiano" puo' essere impresso sulla
carta di confezionamento e su altri mezzi di contenimento e di
presentazione e comunicazione, purche' sia rispettato quanto
prescritto dal presente regolamento.
4.9 Condizioni nazionali -.