SUPPLEMENTO SPECIALE N.238 DEL 16.07.2018

Relazione

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Nuove opportunità per imprenditori e consumatori sono state senza dubbio generate dallo sviluppo e dalla diffusione dell’economia collaborativa. Lo riconoscono la comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo del 2 giugno 2016 (COM (2016) 356 final, Un’agenda europea per l’economia collaborativa) e vari atti successivi fino alla Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano siglata a Bologna nel maggio 2018.

Il quadro degli obblighi e dei diritti di quanti partecipano all’economia collaborativa resta però incerto. In un tale contesto infatti si sono diffuse pratiche che, sfruttando la digitalizzazione e l’evoluzione tecnologica in genere, hanno prodotto un aumento delle diseguaglianze ed aumentato il rischio di sfruttamento del lavoro. Una vera e propria zona grigia in cui è a rischio il riconoscimento di tutele basilari e standard minimi e su cui occorre intervenire con regole precise, che consentano di affermare in primo luogo i diritti dei lavoratori impiegati nei nuovi settori rendendoli sostenibili per tutti i soggetti.

Sono già nate diverse organizzazioni autonome a rappresentanza dei lavoratori digitali. Molte mobilitazioni a livello nazionale, basti guardare all’esperienza di Bologna – Bologna Rider Union, ed internazionale negli ultimi hanno portato all’attenzione del dibattito pubblico istanze legate ai problemi alle difficoltà e alle sfide connessi al lavoro con le piattaforme digitali. Istanze che necessitano risposte. 

In base alla comunicazione della Commissione europea richiamata in precedenza “I ricavi totali lordi nell'UE di piattaforme e prestatori di servizi di collaborazione sono stati stimati a 28 miliardi di euro nel 2015. Rispetto all'anno precedente i ricavi nell'UE di cinque settori chiave sono quasi raddoppiati e si prevede che continueranno stabilmente a crescere”. Inoltre la crescita registrata a partire dal 2013 ha visto “una ulteriore accelerazione nel 2015, grazie ai notevoli investimenti di grandi piattaforme che hanno ampliato la loro attività in Europa”. Secondo alcune stime “l'economia collaborativa potrebbe apportare all'economia dell'UE da 160 a 572 miliardi di euro di ulteriore giro d'affari”.

Sul piano nazionale si stimano tra i 700 mila e 1 milione gli occupati nella gig economy. In base ai dati della Fondazione Rodolfo de Benedetti e riportati da Il Sole 24 Ore sono 150 mila i lavoratori che hanno dal lavoro digitale la loro unica fonte di guadagno (10 mila sono i fattorini e i restanti suddivisi tra le altre attività legate a piattaforme). Dalla stessa ricerca emerge anche una certa frammentazione riguardo gli inquadramenti contrattuali: ad esempio nel 10% dei casi sono inquadrati come cococo mentre nel 50% con collaborazione occasionale a ritenuta d’acconto; più del 50% viene pagato a consegna mentre meno del 20% è pagato a ora.

È necessario distinguere tra sharing economy, economia della condivisione vera e propria; e gig economy, ovvero l’economia del lavoretto (o on demand), che ha trasformato il volto di molte attività lavorative. In questo ambito diminuzione di salario e tutele per i lavoratori si sono accompagnate alla crescita dei servizi forniti ai clienti.

Nella comunicazione 365 la Commissione europea l’economia collaborativa (sharing) come riferita a “modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l'uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati. L'economia collaborativa coinvolge tre categorie di soggetti: i) i prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze e possono essere sia privati che offrono servizi su base occasionale ("pari") sia prestatori di servizi nell'ambito della loro capacità professionale ("prestatori di servizi professionali"); ii) gli utenti di tali servizi; e iii) gli intermediari che mettono in comunicazione — attraverso una piattaforma online — i prestatori e utenti e che agevolano le transazioni tra di essi ("piattaforme di collaborazione"). Le transazioni dell'economia collaborativa generalmente non comportano un trasferimento di proprietà e possono essere effettuate a scopo di lucro o senza scopo di lucro”. In pratica i punta ad abbassare i costi condividendo azioni che si compirebbero comunque.

La gig economy invece non presenta particolari caratteristiche di condivisione e trova quale punto in comune con la sharing economy forse il solo utilizzo di piattaforme digitali. È stata anche definita come “un sistema di lavoro apparentemente free lance, facilitato dalla tecnologia, che ha a che fare con esigenze generazionali e sociali. È una forma efficiente di impresa capitalistica, su lavori che scontano flessibilità e intermittenza”. Nella gig economy non si rinvengono significativi elementi di condivisione: nel servizio a pagamento di consegna del cibo a domicilio non si condividono bicicletta, smartphone o altro; nel servizio di taxi non si condividono le automobili o la benzina, così come nel servizio di pulizie gli addetti non condividono spazzolone e strofinaccio.

La funzione della piattaforma tra prestatore di servizi e utente, in simili contesti, è accresciuto e può portare ad una ridefinizione dell’autonomia delle parti in causa. Significa che la piattaforma cessa di essere un mero intermediario che eroga solo il servizio della società dell’informazione, per fornire essa stessa il servizio che ne dipende grazie ai prestatori di servizi che, a loro volta, sono di fatto suoi dipendenti.

In quest’attività lavorativa, che si colloca in una zona grigia tra il lavoro da freelance e quello da dipendente, gli elementi di subordinazione sono numerosi, come il fatto di essere tenuti a indossare un’uniforme aziendale, di avere un orario concordato, molto spesso turni stabiliti (anche se in svariati casi si è liberi di dare o meno la propria disponibilità), un luogo prefissato di partenza per le consegne, un compenso stabilito unilateralmente dalla piattaforma, un rapporto di lavoro spesso continuativo, senza trascurare l’elemento del controllo a distanza operato mediante la geolocalizzazione costante e in tempo reale dell’operatore. Tutti questi elementi evidenziano che i lavoratori sono sottoposti a una organizzazione del lavoro stabilita dall’azienda. Al contempo il rischio è tutto schiacciato sulle spalle dei lavoratori, che investono sul proprio mezzo, la bicicletta, sul proprio smart phone e sul loro stesso tempo. Pagano di tasca propria le riparazioni e la telefonia e fanno i conti con eventuali infortuni, malattie, guasti o perturbazioni climatiche senza alcuna tutela.

Come richiamato in precedenza in Italia le piattaforme della gig economy italiana hanno diversi modelli di organizzazione del lavoro, di inquadramento contrattuale, di elargizione del compenso, di durata e recesso del rapporto di lavoro. Se alcune riconoscono un compenso orario fisso, altre corrispondono un compenso a consegna, ossia a cottimo. In ogni caso tutti i contratti sanciscono la natura autonoma del rapporto di lavoro ed una delle strade per regolamentare il settore potrebbe essere quella della riqualificazione del rapporto fra piattaforma e prestatori del servizio.

Per muoversi in questa direzione la Regione Emilia–Romagna ha approvato all’unanimità una risoluzione che impegna la Giunta ad attivarsi affinché i principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale bolognese possano essere estesi a tutto il territorio regionale emiliano-romagnolo per garantire parità di trattamento e tutele anche ai lavoratori impiegati in nuove attività economiche, tra le quali il settore del food-delivery. L’indicazione per ottenere questo obiettivo è quella di inserire i principi della Carta nell’ambito del Patto per il Lavoro, siglato nel 2015 in Emilia-Romagna da tutte le sigle sindacali e datoriali.

Scopo della Carta di Bologna infatti è quello di promuovere, nel territorio cittadino, un’occupazione sicura e dignitosa, garantendo al contempo l’adattabilità del mercato del lavoro digitale ed il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei prestatori. Ci si propone di farlo migliorando l’accesso di lavoratori e collaboratori alle informazioni concernenti le loro condizioni di lavoro; le condizioni di lavoro di tutti i lavoratori e collaboratori a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto; la trasparenza del mercato del lavoro digitale, senza imporre oneri eccessivi alle imprese; promuovendo il dialogo sociale tra imprese, organizzazioni sindacali e lavoratori digitali nel contesto urbano; e la diffusione di una nuova cultura del lavoro digitale in Italia ed in Europa. Azioni che, se inserite all’interno del Patto per il lavoro, creerebbero un contesto condiviso e omogeneo su tutto il territorio regionale.

Con la presente proposta di legge, coerentemente con la Risoluzione richiamata in precedenza, si intende fare un ulteriore tratto nella stessa direzione. Per favorire un inquadramento chiaro dei lavoratori e riconoscere diritti e tutele che ad oggi sembrano essere negati ai lavoratori della gig economy. Per impedire che siano aggirate molte delle regolamentazioni previste dai contratti collettivi, come le tutele in caso di malattia. Per contrastare l’ultra precarietà di un lavoro con un livello di retribuzione troppo basso e quindi l’idea che l’attività di fattorino sia “un’opportunità per andare in bici guadagnando anche un piccolo stipendio”. Il tema, insomma, rimane restituire dignità al lavoro.

Sintesi degli articoli.

Il presente progetto di legge alle Camere si compone di sei articoli.

Nell’art. 1 si definiscono le finalità del progetto, ovvero favorire l’instaurazione di l'instaurazione di rapporti di lavoro attraverso contratti chiari e trasparenti, coerenti con le esigenze del contesto occupazionale, nel rispetto del giusto equilibrio tra flessibilità del lavoro e diritti dei lavoratori e delle lavoratrici al fine di tutelare lavoratrici e lavoratori.

Nell’art. 2 si definiscono le forme contrattuali e le informazioni cui hanno diritto i lavoratori digitali e le conseguenze in caso di violazione.

Nell’art. 3 si afferma la libertà di opinione del lavoratore anche rispetto a poteri direttivi, disciplinari, di coordinamento, di controllo o di verifica del datore di lavoro o del datore di lavoro gestore della piattaforma.

Nell’art. 4 si sancisce il diritto dei lavoratori digitali a non essere discriminati e si individuano le casistiche di discriminazione.

Nell’art. 5 si determinano le norme a tutela dei dati personali delle lavoratrici e dei lavoratori digitali.

Nell’art. 6 si modifica l’articolo 2 del D.lgs. 15 giugno 2015 n. 81 al fine di definire con chiarezza i rapporti di lavoro e le caratteristiche dei contratti per le lavoratrici e i lavoratori digitali.

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