Testo

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, commi secondo, lettere i), l), m), terzo e quinto, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 48 della legge della Regione Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’art. 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010-2012).

1.1. – L’art. 35 è impugnato nella parte in cui attribuisce alla Regione il potere di prevedere, in fase di aggiornamento del prontuario terapeutico regionale, «l’uso di farmaci anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in commercio». Ad avviso del ricorrente, la citata norma violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto esorbiterebbe dalle competenze regionali ed invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato in materia di livelli essenziali delle prestazioni. In particolare, essa inciderebbe negativamente su questi ultimi, poiché darebbe luogo ad «una disparità di trattamento tra gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori del SSN su scala nazionale» e consentirebbe un «decremento […] del regime di assistenza sanitaria riconosciuto, consistente nell’impiego improprio di medicinali».

In via subordinata, si deduce che la norma impugnata violerebbe, altresì, l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, che riserva alla potestà legislativa concorrente la disciplina della tutela della salute, in quanto risulterebbe in contrasto con i principi fondamentali dettati dal legislatore riguardo alle modalità e alle procedure per l’uso dei farmaci cd. off label, ovvero non inclusi nel prontuario farmaceutico.

1.1.1. – In via preliminare, deve essere dichiarata fondata l’eccezione di inammissibilità proposta dalla Regione resistente in relazione all’asserito contrasto dell’impugnato art. 35 con l’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto la censura risulta formulata in modo generico. Il ricorrente, infatti, ha omesso di indicare la disposizione statale contenuta nel D.P.C.M. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza) con la quale la norma regionale risulterebbe in contrasto e si è limitato ad affermare, in modo apodittico, che la norma impugnata «impatta negativamente sui LEA, determinando una evidente disparità di trattamento tra gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori del SSN su scala nazionale, consentendo un evidente decremento del regime di assistenza sanitaria riconosciuto, consistente nell’impiego improprio di medicinali».

Tale omissione rende inammissibile la censura, poiché questa Corte ha già affermato che «l’inserimento nel secondo comma dell’art. 117 del nuovo Titolo V della Costituzione, fra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto» e che «la conseguente forte incidenza sull’esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle Regione e delle Province autonome» comporta «che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovrà inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori» (sentenza n. 88 del 2003, nonché sentenza n. 134 del 2006).

1.1.2. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, prospettata con riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, è fondata.

Prima di procedere all’esame della censura, appare opportuno ricostruire il quadro normativo entro il quale si inserisce la questione oggetto del presente giudizio. Al riguardo va osservato che il legislatore statale, nell’esercizio della propria competenza concorrente in materia di tutela della salute, è più volte intervenuto per individuare i principi fondamentali volti a regolare le modalità ed i criteri in base ai quali è ammesso l’uso dei farmaci al di fuori delle indicazioni per le quali è stata autorizzata la loro immissione in commercio (AIC).

L’art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del 1996 (Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996), convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, statuisce che, «qualora non esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico del SSN, a partire dal 1° gennaio 1997, i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale, i medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in un apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del farmaco [oggi sostituita dall’Agenzia Italiana del Farmaco] conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa».

Con il successivo decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23 (Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria), convertito in legge con modificazioni dalla legge 8 aprile 1998, n. 94, il legislatore statale è nuovamente intervenuto nella materia considerata.

In particolare l’art. 3, comma 2, del citato decreto-legge prevede che il medico, in deroga al principio generale secondo cui, nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente, è tenuto ad attenersi «alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della Sanità», può «in singoli casi, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’art. 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536». Tale potere del medico è subordinato all’accertamento, «in base a dati documentabili», che il paziente «non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale».

Il successivo comma 4 precisa, inoltre, che «in nessun caso il ricorso, anche improprio, del medico alla facoltà prevista dai commi 2 e 3 può costituire riconoscimento del diritto del paziente all’erogazione dei medicinali” a carico del SSN, al di fuori dell’ipotesi disciplinata dal citato art. 1, comma 4, del d.l. n. 536 del 1996».

L’art. 6, comma 1, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 (Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE), a sua volta, sancisce il principio di carattere generale, secondo cui nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione comunitaria a norma del regolamento CE n. 726/2004, in combinato disposto con il regolamento CE n. 1394/2007. Il successivo comma 2 stabilisce poi che «quando per un medicinale è stata rilasciata una AIC ai sensi del comma 1, ogni ulteriore dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonché le variazioni ed estensioni sono ugualmente soggetti ad autorizzazione ai sensi dello stesso comma 1».

Al fine di circoscrivere ulteriormente le condizioni in base alle quali è possibile fare ricorso a medicinali per indicazioni terapeutiche diverse da quelle autorizzate, il legislatore statale, ancor più recentemente, con l’art. 2, comma 348, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge finanziaria 2008), ha stabilito che «In nessun caso il medico curante può prescrivere, per il trattamento di una determinata patologia, un medicinale di cui non è autorizzato il commercio quando sul proposto impiego del medicinale non siano disponibili almeno dati favorevoli di sperimentazioni cliniche di fase seconda. Parimenti, è fatto divieto al medico curante di impiegare, ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 1998, n. 94, un medicinale industriale per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora per tale indicazione non siano disponibili almeno dati favorevoli di sperimentazione clinica di fase seconda».

La medesima legge, all’art. 2, comma 349, ha attribuito alla Commissione tecnico-scientifica dell’Agenzia Italiana del Farmaco, in sostituzione della Commissione unica del farmaco, la competenza di valutare, «oltre ai profili di sicurezza, la presumibile efficacia del medicinale, sulla base dei dati disponibili delle sperimentazioni cliniche già concluse, almeno di fase seconda»; competenza, quest’ultima, che deve essere esercitata proprio in riferimento alle «decisioni da assumere ai sensi dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, e dell’articolo 2, comma 1, ultimo periodo, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 1998, n. 94».

1.1.3. – Nel riportato quadro normativo si inserisce la disposizione regionale censurata.

Essa attribuisce alla Regione il potere di prevedere, in fase di aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale e avvalendosi della Commissione regionale del farmaco, «l’uso di farmaci anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in commercio, quando tale estensione consenta, a parità di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci già autorizzati, una significativa riduzione della spesa farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale e tuteli la libertà di scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN».

Risulta evidente il contrasto tra la norma regionale e le richiamate disposizioni statali. La norma impugnata, infatti, individua condizioni diverse rispetto a quelle stabilite dal legislatore per l’uso dei farmaci al di fuori delle indicazioni registrate nell’AIC. In particolare, laddove le disposizioni statali circoscrivono il ricorso ai farmaci cd. off label a condizioni eccezionali e ad ipotesi specificamente individuate, la norma regionale introduce una disciplina generalizzata in ordine all’indicato utilizzo dei farmaci, rimettendo i criteri direttivi alla Commissione regionale del farmaco, così eludendo il ruolo che la legislazione statale attribuisce all’Agenzia Italiana del Farmaco nella materia considerata.

A quest’ultimo riguardo deve osservarsi che questa Corte, con la sentenza n. 185 del 1998, ha già affermato che competono allo Stato le responsabilità, «attraverso gli organi tecnicoscientifici della sanità, con riguardo alla sperimentazione e alla certificazione d’efficacia, e di non nocività, delle sostanze farmaceutiche e del loro impiego terapeutico a tutela della salute pubblica».

Sempre al fine di assicurare la protezione della salute pubblica, con la sentenza n. 282 del 2002 questa Corte ha avuto modo, altresì, di precisare che «un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi - di norma nazionali o sovranazionali - a ciò deputati».

Pertanto, la violazione dei citati principi generali posti dalla legislazione statale comporta la declaratoria di illegittimità della norma regionale in esame.

1.2. – L’art. 48, comma 1, è impugnato nella parte in cui «riconosce a tutti i cittadini di Stati appartenenti alla Unione europea il diritto di accedere alla fruizione dei servizi pubblici e privati in condizioni di parità di trattamento e senza discriminazione, diretta o indiretta, di razza, sesso, orientamento sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. L’accesso ai servizi avviene a parità di condizioni rispetto ai cittadini italiani e con la corresponsione degli eventuali contributi da questi dovuti». Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la citata disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto introdurrebbe «un’ipotesi di obbligo legale a contrarre», incidendo così sull’autonomia negoziale dei privati.

1.2.1. – La questione non è fondata.

La disposizione si limita a richiamare l’obbligo del necessario rispetto del principio di eguaglianza e di non discriminazione tratti dalla Costituzione e dai Trattati europei. Ne consegue che la disposizione impugnata non è idonea a ledere alcuna competenza riservata allo Stato.

1.3. – L’art. 48, comma 2, è impugnato nella parte in cui prevede che la Regione «assume» la nozione di discriminazione diretta ed indiretta contenuta nella direttiva 2000/43/CE del Consiglio dell’Unione europea, relativa al principio della parità di trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, nella direttiva 2000/78/CE del Consiglio dell’Unione europea, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e nella direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa all’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego. Ad avviso del ricorrente la norma violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto spetta «alla Repubblica il compito di rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che limiti di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini». La disposizione impugnata risulterebbe, altresì, in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, poiché «il concetto di discriminazione» rientrerebbe nella «materia ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato. Essa, infine, violerebbe l’art. 117, quinto comma, della Costituzione, attraverso il parametro interposto costituito dall’art. 16 della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), in quanto la Regione avrebbe «recepito» atti comunitari in una materia che esula dalla propria competenza esclusiva.

1.3.1. – La questione non è fondata.

Con tale disposizione il legislatore regionale non ha provveduto ad attuare atti comunitari, ma si è limitato, evidentemente con riferimento all’esercizio delle molteplici competenze di cui è titolare, a servirsi delle “nozioni” desumibili dal diritto comunitario ai fini dell’autonomo svolgimento delle attribuzioni regionali.

La norma impugnata, pertanto, non è suscettibile di recare alcun vulnus alle competenze statali.

1.4. – L’art. 48, comma 3, è censurato nella parte in cui prevede che «i diritti generati dalla legislazione regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi, si applicano» anche «alle forme di convivenza» di cui all’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (Applicazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente). Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la citata disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettere i) e l), della Costituzione, poiché il richiamo operato dal legislatore regionale alle «forme di convivenza», di cui al citato d.P.R. che, nel definire la «famiglia anagrafica», ricomprenderebbe «l’insieme delle persone legate da vincoli affettivi», eccederebbe le competenze regionali ed invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato nelle materie di «cittadinanza, stato civile e anagrafi» e dell’«ordinamento civile».

1.4.1. – In via preliminare, va rigettata l’eccezione di inammissibilità per genericità della motivazione sollevata dalla difesa regionale, posto che le argomentazioni sviluppate dal ricorrente sono sufficienti per l’individuazione dell’oggetto della doglianza.

Nel merito la questione non è fondata.

La censura si fonda sull’erroneo presupposto interpretativo, secondo cui il legislatore regionale ha inteso disciplinare tali forme di convivenza. Viceversa, la norma impugnata si limita ad indicare l’ambito soggettivo di applicazione dei diritti previsti dalla legislazione regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi senza introdurre alcuna disciplina sostanziale delle forme di convivenza.

Pertanto, essa risulta inidonea ad invadere àmbiti costituzionalmente riservati allo Stato.

1.5. – L’art. 48, comma 4, è impugnato nella parte in cui prevede che la Regione promuove «azioni positive per il superamento di eventuali condizioni di svantaggio derivanti da pratiche discriminatorie». La disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto, «pur contenendo una norma programmatica priva di immediato rilievo costituzionale, è strettamente conness[a] al primo comma e segue di conseguenza l’interpretazione attribuita a quest’ultimo». Pertanto, secondo il ricorrente, la disposizione risulterebbe illegittima «per gli stessi motivi che affliggono» il primo comma dell’art. 48.

1.5.1. – L’eccezione di inammissibilità della questione, sollevata dalla difesa regionale, è fondata.

La censura, infatti, è formulata in modo generico, senza una sufficiente ed autonoma motivazione in ordine alla dedotta lesione del parametro costituzionale invocato

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ultima modifica 2011-01-18T13:42:40+02:00

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