REGIONE EMILIA-ROMAGNA - DIRETTORE GENERALE AGRICOLTURA

COMUNICATO DEL DIRETTORE GENERALE AGRICOLTURA

Richiesta di registrazione DOP Pecorino dell'Appennino Reggiano.

Il Direttore generale Agricoltura comunica che il Consorzio per la              
valorizzazione dei prodotti dell'Appennino - Con.V.A - Via Roma n. 79           
- 42035 Castelnovo ne' Monti (Reggio Emilia), ha presentato alla                
Regione Emilia-Romagna ai sensi dell'art. 5 del Regolamento CE                  
2081/92, la richiesta di registrazione del marchio DOP Pecorino                 
dell'Appennino Reggiano.                                                        
Secondo quanto previsto dalla deliberazione della Giunta regionale n.           
1273 del 15 luglio 1997 si procede alla pubblicazione della scheda              
tecnica riassuntiva relativa al disciplinare di produzione del                  
prodotto.                                                                       
La documentazione resta a disposizione presso il Servizio regionale             
Valorizzazione delle produzioni per un periodo di trenta giorni                 
successivi alla data di pubblicazione, valido per la presentazione di           
eventuali motivate opposizioni.                                                 
Per informazioni rivolgersi all'Ufficio Qualificazione delle                    
produzioni - Gloria Savigni - tel. 051/284466 e-mail:                           
gsavigni@regione.emilia-romagna.it.                                             
IL DIRETTORE GENERALE AGRICOLTURA                                               
Dario Manghi                                                                    
Scheda riepilogativa                                                            
Regolamento (CEE) 2081/92 del Consiglio                                         
"Pecorino dell'Appennino Reggiano"                                              
(N. CE...) DOP(X)                                                               
1. Servizio competente dello Stato membro                                       
Nome: Ministero delle Politiche agricole e forestali Dipartimento               
della qualita' dei prodotti agroalimentari e dei servizi Indirizzo:             
Viale XX Settembre n. 20 - 00187 Roma,  telefono 0646655106.                    
2. Richiedente                                                                  
2.1 Nome: Consorzio per la valorizzazione dei prodotti dell'Appennino           
- Con.V.A.                                                                      
2.2 Indirizzo: Via Roma n. 79 - 42035 Castelnovo ne' Monti (RE) -               
Italia - telefono +39.338.69.61.226 - Fax + 39 (0)522.810.833 -                 
e-mail:endrighi.emiro@unimore.it; g.arlotti@tuttomontagna.it.                   
2.3 Composizione: Produttori/trasformatori (X ) altro.                          
3. Tipo di prodotto: Classe 1.3: Formaggi                                       
4. Descrizione del prodotto (sintesi delle condizioni di cui                    
all'articolo 4, paragrafo 2)                                                    
4.1 Nome: Pecorino dell'Appennino Reggiano.                                     
4.2 Descrizione: La denominazione "Pecorino dell'Appennino Reggiano"            
e' riservata al prodotto avente i requisiti fissati con il presente             
disciplinare con riguardo ai metodi di lavorazione ed alle                      
caratteristiche organolettiche e merceologiche derivanti dagli usi e            
costumi della zona di produzione delimitata.                                    
Si produce in prevalenza da marzo a settembre, ma puo' essere                   
prodotto anche nei restanti mesi dell'anno. La denominazione di                 
origine "Pecorino dell'Appennino Reggiano" e' riservata al formaggio            
avente le seguenti caratteristiche: formaggio a pasta tenera o a                
pasta semidura, prodotto esclusivamente con latte di pecora intero;             
l'alimentazione base del bestiame ovino deve essere costituita da               
foraggi verdi o affienati provenienti dai pascoli naturali della zona           
con eventuali integrazioni di fieno e di mangimi semplici concentrati           
e/o mangimi composti integrati.Si riconoscono due tipologie di                  
"Pecorino dell'Appennino Reggiano":                                             
A. a pasta tenera (ottenuto da latte sottoposto a processo di                   
pastorizzazione) che puo' essere consumato prima dei 60 giorni di               
stagionatura (ai sensi della regolamentazione vigente), e comunque              
non prima dei 30 giorni dalla data di produzione;                               
B. a pasta semidura (ottenuto da latte non sottoposto a processo di             
pastorizzazione) che puo' essere consumato solo dopo i 90 giorni di             
stagionatura.                                                                   
E' usato come formaggio da tavola o da grattugia a seconda dell'eta'            
di stagionatura.                                                                
Il Pecorino dell'Appennino Reggiano presenta le seguenti                        
caratteristiche:                                                                
- forma cilindrica a facce piane con scalzo leggermente convesso;               
- dimensioni: diametro delle facce da 15 a 22 cm, altezza dello                 
scalzo da 7 a 11 cm con variazioni in piu' o in meno in entrambe le             
caratteristiche in rapporto alle condizioni tecniche di produzione              
fermo restando che lo scalzo non deve mai superare la meta' del                 
diametro;                                                                       
- peso: da 1 a 2,5 kg;                                                          
- aspetto esterno: crosta di colore bianco-giallo pastello con varie            
tonalita'; per il tipo a pasta semidura di colore tendente piu' o               
meno al bruno, in funzione della durata della stagionatura e della              
presenza di muffe grigio-verdi;                                                 
- colore della pasta: dal bianco a color paglierino con l'avanzare              
della stagionatura. E' considerata segno di tipicita' la presenza di            
eventuali riflessi sottocrosta (in controluce) verdi;                           
- struttura della pasta per il tipo a pasta tenera: pasta a struttura           
compatta, moderatamente resistente al taglio, con eventuale moderata            
occhiatura anche non regolarmente distribuita;                                  
- struttura della pasta: pasta a struttura compatta e tenace al                 
taglio per il tipo a pasta semidura con eventuale minuta occhiatura             
non regolarmente distribuita;                                                   
- sapore: fragrante accentuato, dolce, leggermente salato e                     
debolmente piccante quello a pasta semidura;                                    
- grasso sulla sostanza secca: per il prodotto stagionato non                   
inferiore al 40% e per il prodotto fresco non inferiore al 45%.                 
4.3 Zona geografica                                                             
La zona di produzione e di stagionatura del Pecorino dell'Appennino             
Reggiano comprende: l'intero territorio dell'Appennino Reggiano cosi'           
come definito dai Comuni della Comunita' Montana (Baiso, Busana,                
Collagna, Casina, Castelnovo ne' Monti, Canossa, Carpineti,                     
Ligonchio, Ramiseto, Viano, Vetto, Villa Minozzo, Toano).                       
4.4 Prova dell'origine                                                          
La pastorizia e' praticata da secoli sull'Appennino reggiano;                   
l'allevamento ovino e la connessa produzione del formaggio pecorino             
ha assunto un peso socioeconomico non trascurabile per la vita delle            
popolazioni. La frugalita' e la rusticita' degli ovini, animali a               
triplice attitudine (latte, carne, lana), hanno sostenuto il cammino            
degli insediamenti umani fin da epoche remote.                                  
I Liguri, che troviamo ancora presenti nelle parti piu' alte                    
dell'Appennino sino al II secolo a. C., erano allevatori di cavalli,            
muli e bestiame in genere, produttori di lane ruvide, di pellami e di           
miele, cosi' come li racconta lo storico greco Strabone, vivente                
all'epoca della nascita di Cristo. Nel periodo precedente si possono            
ipotizzare soltanto insediamenti sporadici (per spedizioni militari),           
o presenze saltuarie per la caccia e per la pesca.                              
L'insediamento romano lascio', spesso, immutate le popolazioni                  
insediate sull'alto Appennino: era mirato, piuttosto, al controllo              
dei valichi che congiungevano la Pianura Padana al Mar Tirreno.                 
Nell'epoca della calata delle popolazioni longobarde, a partire dalla           
fine del Cinquecento e sino al Mille, in Appennino arrivarono a                 
scontrarsi due culture, cosi' come testimonio' il Limes Bizantinum,             
il confine che proprio nell'Appennino le divideva. Da un lato,                  
appunto, si insediarono gli usi e le tradizioni delle popolazioni               
Longobarde, collegate alla cultura zootecnica dei Galli, incentrata             
sull'allevamento del maiale nero (una sorta di cinghiale domestico)             
come animale da carne, unitamente all'introduzione di nuove vacche da           
latte, come le vacche rosse destinate a diventare la moderna razza              
reggiana, e la razza grigia o montanara, scomparsa nella prima meta'            
del Novecento. Dall'altro versante del limes permane la cultura dei             
Bizantini, gli ultimi Romani, ancora incentrata, per quanto                     
concerneva la zootecnia, sull'allevamento della pecora, cosi' come              
nella vicina Romagna bizantina. Due fenomeni che, a distanza di oltre           
mille anni, lasciano ancora gli ultimi segni sul territorio. Non a              
caso, negli odierni comuni al tempo sotto l'egida bizantina, permane            
la cultura dell'allevamento della pecora, contrapposto                          
all'allevamento di vacca e maiale, piu' diffusi nei possedimenti dei            
bizantini, e' il caso di Baiso, di alcuni terreni dei Carpinetano,              
dei comuni del Crinale. Addirittura nel Baisano ancor oggi si produce           
un insolito prodotto autoctono per eccellenza: il prosciutto di                 
pecora. E' denominato Cushot ed e' un prodotto tipico rinomato in               
queste zone. La prima documentazione storica di insediamenti di                 
abitanti nelle zone appenniniche puo' essere fatta risalire intorno             
all'Ottocento - Novecento; gli stanziamenti maggiormente documentati            
sono situati lungo il corso del fiume Secchia e nelle valli                     
convergenti allo stesso corso del fiume. Nella stessa linea possono             
essere documentate presenze e insediamenti significativi lungo le               
strade commerciali e militari sull'asse Nord-Sud, dalla valle del Po            
al Mar Tirreno, attraverso importanti passi appenninici (Passo del              
Lagastrello, Passo del Cerreto, Passo di Pradarena, Passo delle                 
Radici).                                                                        
La situazione dopo l'anno Mille                                                 
Una documentazione storica precisa la desumiamo unicamente da                   
documenti scritti di cui abbiamo testimonianza grazie alle pergamene            
delle Abbazie del territorio.                                                   
L'influenza delle Abbazie benedettine (Marola, Canossa, cui e' da               
aggiungere San Prospero, con sede in citta') nella montagna, dal                
Mille al Millequattrocento, fu notevole anche per la zootecnia. Si              
puo' dire che i Benedettini costituirono la prima presenza che                  
realmente porto' un mutamento di vita, in particolare nell'Alta valle           
del Secchia. Non solo in campo economico, ma anche civile,                      
contribuendo al sorgere di nuovi insediamenti di agricoltori e                  
pastori, e soprattutto religioso con una cura pastorale assidua che             
consolido' il Cristianesimo (forse portato dai Bizantini). La cultura           
benedettina spingeva le abbazie ad essere economicamente indipendenti           
e, quindi, poteva fare tesoro degli insegnamenti e degli usi anche di           
culture opposte, come quella bizantina e longobarda, anche se arrivo'           
a prediligere l'allevamento del bovino, sia da lavoro che da latte, e           
del suino.                                                                      
E' comunque certo che, in montagna, fin dall'inizio del secolo XI gli           
ovicaprini sono gli animali dominanti per la produzione di latte e              
formaggio. Donizone, il biografo di Madide, colloca sull'Appennino              
Reggiano i pascoli di Publio Virgilio Marone (Marola = Maronis aula).           
La tesi e' molto discussa dagli storici, ma indipendentemente da come           
possa essere risolta, Donizone, vivente Madide, attesto' che                    
sull'Appennino era fiorente la tradizione secolare dell'allevamento             
della pecora, con le relative "industrie".                                      
A quei tempi il formaggio di pecora, nel parlato locale, e'                     
denominato "caseo" (in latino "caseus"), cioe' cacio. Il termine di             
caseo o cacio sta ad indicare una produzione di piccole dimensioni,             
per ottenere la quale non sempre e' necessario l'impiego di appositi            
stampi (le odierne fascere) per conferirvi appunto la forma, ma                 
bensi' di piccole cascine. Una ricerca di Gabriele Arlotti, del 2003,           
accerta che nei dialetti del crinale appenninico gli stampi impiegati           
per dare forma alla cagliata, ottenuta da latte di pecora, si                   
chiamano esclusivamente "cashinii".                                             
La forma, invece, indica il contenitore di una cagliata di volumi               
maggiori, come quella ottenuta dal latte di vacca. A tutt'oggi nel              
parlato delle popolazioni locali resta proprio il termine "forma"               
come elemento distintivo dal formaggio di vacca. Questo perche',                
verosimilmente subito dopo il Mille, le vacche piu' produttive di               
latte rispetto alle pecore, sono impiegate non solo come forza                  
motrice, ma per la produzione di latte. Il prodotto trasformato viene           
fabbricato in formato piu' grande per il quale, sicuramente, si rende           
necessario l'impiego di apposite e grosse fascere (altrimenti dette             
forme), affinche' la cagliata, appena estratta, possa acquisire la              
caratteristica forma; nel linguaggio del luogo il "formadio" indica             
il prodotto del latte di vacca (e il termine forma per indicare                 
un'unita' di formaggio integra). Nel 2002 tra le pergamene                      
dell'Abbazia di Marola e' stata rinvenuta la prima citazione (in                
assoluto) del progenitore del Parmigiano Reggiano: il "formadius", e'           
del 13 aprile del 1159.                                                         
Questa distinzione e' particolarmente utile perche' consente di                 
reperire, in centinaia di pergamene (abbazia di Marola, abbazia di              
Canossa,...), la diffusione e la distribuzione della produzione di              
pecorino col nome di cacio o, diversamente, formaggio di pecora.                
Anche se i monaci benedettini indirizzarono la zootecnia verso                  
l'allevamento di bovini e di suini, la "quantita'" di citazioni del             
termine "cacio", tra le pergamene delle abbazie, consente di                    
affermare che il pecorino nell'Appennino reggiano era il formaggio              
principe e dominante, cosi' come in larga parte d'Italia. Il fatto              
che dal Millecento si sia cominciato a produrre anche in montagna               
formaggio grana di vacca, non ha certo scalfito l'egemonia del                  
formaggio di pecora che si e' protratta sino alla fine del ventesimo            
secolo. Lasciti testamentari, documenti notarili, fatti di cronaca:             
sono moltissimi i documenti che raccontano la storia di questo                  
prodotto, sempre presente nei secoli.                                           
Nei secoli XII e XIII, i grossi allevamenti zootecnici, come quelli             
di bovini e maiali, potevano sussistere solo presso aziende                     
monastiche o di grosse famiglie feudali. Appare pero' una netta                 
differenza tra monaci e famiglie feudali. I primi hanno un'indubbia             
preferenza per i bovini, soprattutto dove essi erano presenti come              
nei territori del Cerreto, in particolare al Livello di Nasseta                 
(oltre Cinquecerri sin sotto al Cerreto e al Cavalbianco). Dove                 
invece le abbazie ricevono soltanto donazioni di piccoli appezzamenti           
di terreno - e dove sono insediate le grosse famiglie feudali -                 
troviamo il persistere della pecora: cosi' a Vallisnera, a                      
Camporaghena, a Crovara, a Cerre' Sologno, Cerreto Alpi, Valbona,               
localita' dove l'abbinamento pecora/caseo e' piu' che esplicito. Sono           
terre del crinale... ancora portatrici dei modelli bizantini.                   
In mancanza di quella forte organizzazione anche tecnologica, che               
caratterizza l'intervento benedettino, il crinale "laico" preferisce            
la pecora che non richiede particolari specializzazioni e,                      
soprattutto, puo' svernare nelle maremme. Senza dire che i suoi                 
prodotti sono particolarmente richiesti nelle citta' toscane dove               
impera l'Arte della Lana e dove l'"ottimo cacio pecorino" del Cerreto           
ha buona fama. Oltre a questi fondamenti storici, a cosa si deve                
quest'egemonia della pecora, in particolare nel Crinale, sino al                
ventesimo secolo? Come e' noto la pecora ben si prestava a sfruttare            
le modeste produzioni del maggese e delle aree piu' declivi e                   
marginali. A differenza dei bovini, inoltre, gli ovini abbisognano di           
modesti quantitativi foraggieri per produrre latte; aspetto non                 
trascurabile in ambienti dove i campi, prima di tutto, dovevano                 
servire alle esigenze alimentari dell'uomo (granaglie, orti). La                
pecora, oltre alla carne e al latte, forniva l'indispensabile lana,             
per vestiari e, per i piu' abbienti, nei materassi.                             
Fra il 1198 e il 1222 si ha notizia di liti tra i monaci di Marola,             
che hanno beni e un priorato al Cerreto, e i signori di Vallisnera.             
Nel 1.222 si dice espressamente che "i monaci non devono pagare ai              
Vallisneri tributi ne' in pane, formaggio, giuncate, castrati o                 
altro...". La giuncata e' un particolare tipo di formaggio di pecora,           
prodotto mettendo la cagliata appena estratta in giunchi di vimini.             
Nell'anno 1323, nell'atto di sottomissione del Cerreto delle Alpi a             
Castruccio Castracani degli Antelminelli, signore di Lucca, i                   
cerretani accettano di pagare una tassa annua di sottomissione di               
quattrocento ottimi formaggi pecorini (centinaria quattuor optimi               
casei pecorini). Una richiesta simile, secca e indiscussa, da parte             
di Castruccio fa ritenere che gia' il pecorino dei pastori cerretani            
avesse "ottima" fama in Toscana (cfr.) Giuseppe Giovanelli, Il                  
Cerreto delle Altpi, Ed. Parrocchia di San Giovanni Battista, 1991,             
pagg. 26-27; 153-155).                                                          
Tra il Quattrocento e il Cinquecento alla podesteria di Castelnovo              
ne' Monti spettava il compito di amministrare la giustizia e di                 
sovrintendere annualmente alla manutenzione delle strade. Ai primi              
del '500, tra le carte conservate presso l'Archivio di Stato di                 
Modena, spicca un documento in cui si segnalano i prodotti della                
montagna reggiana inviati a Modena per ingraziarsi il duca (che                 
nominava il podesta'): "quattro capretti smagriti e 18 formarette di            
formaggio pecorino", "oglio dolce per l'insalata e un castello di               
prognoli secchi, quattrocento lumache, quattro tartofelli, due                  
pernici e due vitelli" (cfr. G. Badini. A. Fresta, Vicende storiche             
dell'Appennino Reggiano, Ed. Cassa di Risparmio, 1987, pag. 104).               
Il 21 luglio 1503 il Duca Ercole I di Modena concede agli uomini del            
Cerreto e di Collagna il privilegio di portare a svernare i loro                
bestiami, in primis gli ovini, nelle basse di Ferrara, Argenta e                
Nonantola senza pagare alcun dazio ("Omnes et singulas suas oves et             
pecudes, capras, hedos, agnos, hircos atqui castratos et generaliter            
omnia eorum arnimalia greges atque armento"), unitamente al                     
privilegio anche per il rientro con agnelli e formaggi "...pro' eorum           
fetibus, lana et caseo") (cfr. Giuseppe Giovanelli, Il Cerreto delle            
Alpi, Ed. Parrocchia di San Giovanni Battista, 1991). Questo                    
privilegio e' confermato dai successori almeno per tutto il sec.                
XVII. In questo privilegio si puo' anche vedere il tentativo degli              
Estensi di dirottare la transumanza alto appenninica verso le loro              
terre, sottraendola alla Toscana dove risulta antica e consolidata,             
anche per ragioni etniche; infatti le popolazioni dell'alto Appennino           
reggiano provengono dall'etnia ligure.                                          
Conservato nel "Gridario" dell'Archivio di Stato di Reggio Emilia, e'           
il prezioso documento della "Tassa ed ordini da osservarsi per li               
osti e per quelli che allogeranno la Cavalleria della Maesta' del Re            
cattolico che dovra' passa per l'illustris. Citta' di Reggio", dove             
si attesta che, nel 1618, il prezzo per il formaggio di pecora buono            
e' fissato in "12 lira soldi".                                                  
Negli statuti di Castelnovo Garfagnana si legge che nel novembre del            
1630 erano stati contati, provenienti da 11 comuni dell'Appennino               
Reggiano, ben 651 pastori e aiutanti, quasi 15.000 pecore, piu' di              
9.000 capre e 650 cavalli (L. Rondinini, Vicende storiche                       
dell'Appennino Reggiano, Ed. Cassa di Risparmio, 1987, pag. 221).               
La Val d'Asta e il versante Ligonchiese erano votati alla tradizione            
della pastorizia. Lo testimonia una lite che sfocio' alla fine del              
1600 a una vera e propria rapina a mano armata da parte dei pastori             
di Piolo (Ligonchio) di 250 pecore ai danni dei pastori di Febbio.              
Nel 1699 da una descrizione del Cerreto si apprende che: "... vi                
hanno molte bestie grosse e minute", dove per minute sono da                    
intendersi gli ovicaprini.                                                      
Sono innumerevoli i documenti delle diverse parrocchie che attestano            
la presenza del pecorino tra i beni delle genti montane. Ad esempio,            
la Cronaca di Nebbiara (Archivio Privato Magawly, Reggio Emilia), il            
parroco don Giovanni Grossi nel 1797 annota i doni portati a Borzano            
(Albinea) dalla serva dei Montecchi e tra le altre cose spiccano "due           
formaggi di pecora".                                                            
Gli ultimi due secoli                                                           
Nel 1800 Filippo Re (Reggio Emilia, 1767-1817, illustre agronomo che            
insegno' in diverse Universita' italiane) nel suo testo documentativo           
"Viaggio Agronomico per la montagna reggiana", stima la presenza                
delle pecore in Appennino in 67.111 (pag. 50). A pagina 46 della sua            
opera, richiama specificatamente la produzione del formaggio e scrive           
testualmente: "...Per l'ottima qualita' dei pascoli hanno belli                 
animali bovini ed armento lanuto che fornisce un formaggio                      
squisito".                                                                      
Il 30 giugno del 1811, in epoca napoleonica, l'Appennino e' in parte            
sotto il Dipartimento del Crostolo nella Repubblica Cispadana. Il               
Direttore Generale della Pubblica Istruzione scriveva da Milano al              
Prefetto del Dipartimento del Crostolo affinche' collaborasse per               
"raccogliere tutte le notizie necessarie, onde formar si possa                  
un'idea esatta sui costumi, sui caratteri, sulle opinioni e sui                 
pregiudizi o superstizioni ancora vigenti in codesto Dipartimento".             
Il 20 agosto il Prefetto inviava ai Viceprefetti e ai cancellieri del           
Censo un'apposita circolare, nella quale venivano posti quattro                 
quesiti circa i punti suddetti. Nell'articolata risposta, spedita da            
Villa Minozzo, apprendiamo che "Fra l'anno si tiene la sola pratica             
di cantare qualche poesia sacra o profana nel mese di maggio, in                
segno di allegrezza per l'incominciare della bella stagione e si                
eseguisce da diverse persone unite le quali con violino passano da              
una famiglia all'altra, cantando delle poesie che volgarmente si                
chiamano "Cantare maggio" e ricevono delle offerte in formaggio, ova,           
denaro e prodotti che vengono erogati come si fa credere, nel far               
celebrare messe per le anime del Purgatorio - (G. Badini. A. Presta,            
Vicende storiche dell'Appennino Reggiano, Ed. Cassa di Risparmio,               
1987, pag. 109).                                                                
Nel 1832 nel suo Vocabolario reggiano - italiano, Giovanni Aliai,               
alla voce dialettale "Jurmaj edpegra" fa corrispondere il significato           
italiano di "pecorino".                                                         
Nel 1849 la Statistica generale degli Stati Estensi, compilata dal              
dottor Carlo Roncaglia, stima i quantitativi di produzione di                   
formaggio pecorino e formaggio grana di vacca cosi' distribuita nei             
vari comuni reggiani: a Castelnovo ne' Monti si producono 28.200 Kg             
di pecorino, contro i 40.600 di vacca; a Busana 33.100, contro 16.000           
di vacca; a Villa Minozzo 20.333, contro 16.667, a Carpineti 10.900,            
contro 11.700. Nel totale della provincia sotto la giurisdizione                
estense si producono 137.339 kg di pecorino contro 1.722.525 kg di              
formaggio vaccino. Il prezzo medio del formaggio pecorino in montagna           
e' 0,96 lire al chilo, mentre in pianura e' di 1,2 lire. Il prezzo              
medio del formaggio vaccino e' di 1 lira e in pianura di 0,60 lire in           
montagna. In definitiva, il prezzo medio del pecorino (1,05) e'                 
ancora piu' alto del formaggio vaccino. Comunque i dati sulle                   
produzioni attestano un'evoluzione importante: gia' da tempo in                 
provincia di Reggio Emilia e' avvenuto il sorpasso nella produzione             
di formaggio di vacca rispetto a quello di pecora, mentre i prezzi              
dei due sono ancora equiparabili.                                               
Un chilo di lana costava pero' il doppio di un chilo di pecorino.               
Oggi, centocinquant'anni piu' tardi dalla statistica ricordata, la              
lana viene distrutta dai pochi pastori rimasti, in quanto il suo                
utilizzo non trova nessuna convenienza economica. Nel 1886 A.                   
Balletti e G. Gatti nel loro testo "Le condizioni dell'economia                 
agraria nella provincia di Reggio Emilia" (Tipografia di Cesare                 
Calderoni e Figlio, Reggio Emilia) a pagina 78 spiegano che a Reggio            
Emilia la razza pecorina e' indigena - probabilmente trattasi della             
Cornella reggiana n.d.r. - e se ne distinguono due tipi: "nella zona            
piu' montuosa, dove e' maggiore il numero degli ovini, la razza ha              
taglia piu' alta, maggiore corpulenza, lana lunga, discretamente                
fine, produzione maggiore di latte. Nella parte inferiore della zona            
montuosa e nella zona collinare, dove i greggi sono meno numerosi,              
gli animali hanno taglia piu' piccola, lana lunga, grossolana, piu'             
scarsa e' la produzione del latte, meschina quella della carne.                 
Questa varieta' ovina e' conosciuta anche nell'Appennino parmense e             
piacentino ed altrove ed e' conosciuta sotto il nome, appunto, di               
razza piacentina. - (...). le stazioni montanine per il pascolo delle           
percore sono piu' frequenti nell'alta valle dell'Enza e del Secchia"            
- la cultura bizantina lascia ancora il suo segno a distanza di 1.000           
anni n.d.r. - "Il formaggio pecorino in queste localita' gode anche             
di qualche credito ed e' di facile smercio".                                    
Nel 1887, il carteggio amministrativo (conservato presso l'Archivio             
di Stato di Reggio) sul prezzo medio dei prodotti del Municipio di              
Reggio Emilia ci informa che il prezzo di 1 kg di "Formaggio                    
Pecorino" e' di lire 2,15 ("prezzo compreso di dazio"), contro le 3             
lire per il formaggio grana, di vacca, se di prima qualita' o di                
1,52, se di seconda qualita'. Il burro costa 2,46 lire al                       
chilogrammo. L'anno dopo il prezzo del formaggio pecorino scende a              
1,85 lire, contro le 2,77 lire del formaggio di prima qualita' di               
vacca, le 1,88 lire del formaggio di 2 qualita' di vacca, le 2,50               
lire del burro. Il pecorino, in definitiva, inizia a "valere" meno              
del formaggio di vacca; questa condizione perdurera' sino ai primi              
anni del Duemila, quando si assiste a un nuovo sorpasso: Pecorino               
dell'Appennino Reggiano 12-14 Euro/Kg, Parmigiano Reggiano 9-11                 
Euro/Kg.                                                                        
Cosi' come nel Settecento e nell'Ottocento, l'allevamento della                 
pecora, ancor prima della vacca, e' diffuso quasi in ogni famiglia              
contadina. La produzione di cacio pecorino e' comunque un prodotto              
artigianale dei 160 pastori, circa, censiti nel 1881, quando in                 
Appennino si stima la presenza di 50-60 mila ovini, meno della meta'            
allevati nei grossi greggi transumanti, gli altri distribuiti in                
nuclei di meno di dieci capi per famiglia contadina.                            
Nel gennaio del 1921 si costituisce sull'Appennino Reggiano la "La              
Lega dei pastori" con sede estiva a Collagna e invernale a Venturina            
(Campiglia Marittima). Questi sono gli obiettivi della lega: "a)                
Migliorare progressivamente le condizioni dei propri iscri'tti                  
affratellandoli con un mutuo vincolo di solidarieta' per il                     
miglioramento individuale e di classe morale ed economico                       
nell'esercizio dell'industria pastorizia e delle altre (industrie) ad           
essa pertinenti (art. 4 Statuto); b) Vendere possibilmente in comune            
i prodotti dell'industria pastorizia come formaggi, carne, lane ecc.            
per eliminare dal mercato a benefi'cio dei consociati, tutti gli                
intermediari che decurtano il valore di quelli".                                
Nel 1944, apprendiamo da Luigi Camparini, Cucina tradizionale                   
reggiana, Libreria Nironi e Prandi, Reggio Emilia, 1944, pag. 12-13 e           
nota 1, che nel Reggiano: "...Oltre al grana si fanno da noi altre              
specie di formaggi che sono, anch'essi, autentiche particolarita'               
nostrane. Prima che incominci la stagione casaria (Aprile-Ottobre),             
ossia prima che si inizi la lavorazione cumulativa del latte vaccino            
- quando, cioe', la sua produzione e' ancora assai ristretta, se ne             
fa una lavorazione familiare, comunemente giornaliera, talora anche             
di "mo'unta", scremandolo e ottenendo formaggetti a pasta cruda, ma             
consistenti, di pochi ettogrammi l'uno, raramente di un peso                    
superiore al chilogrammo, denominati senz'altro "furmuajin", che sono           
assai apprezzati e che comunemente si mangiano dopo poche settimane,            
perche' non si prestano all'invecchiamento. Analoghi formaggetti si             
fanno col latte di pecora, ma integrale, durante tutto l'anno - non             
potendosi fare la lavorazione cumulativa del latte di pecora; essi              
sono indicati col nome di "furmajin ed pe'gra". Altresi' si usa                 
-segnatamente tra una stagione casearia e la successiva, vale a dire            
dal Novembre al Marzo - fare formaggetti di latte vaccino misto a               
pecorino, lavorando il miscuglio nello stesso modo che si usa per il            
latte vaccino; formaggetti che vengono indicati, particolarmente in             
commercio, col nome improprio di "furmajin ed pe'gra". Talora col               
latte coagulato, accagliato, rappreso, senza restringerlo, vale a               
dire con la "cagie'da" (giuncata) pura naturale, si fa un formaggetto           
di pasta assai molle e dolce detto "stracchi'n" (raveggiolo), che               
deve essere mangiato quasi subito, perche' diversamente marcirebbe.             
E' un prodotto analogo allo "stracchino" che si fa in Lombardia, ma             
e' meno tenero, benche' morbido e dolce, anche di quello detto                  
"robiola", particolarita' di Melzo. Ritengo che l'Ariosto volgesse              
"la mente ai nostri furmajin", di qualunque specie, quando scriveva             
nell'Orlando Furioso: "...e dalle irsute mamme il latte spreme/che in           
giro accolto poi restringe insieme". Con la panna ("pana") si fa il             
burro, ma dal siero ("se'r") si ricava la ricotta: quella ottenuta              
dal "se'r" vaccino si indica col nome, senz'altro, di ricotta, e per            
solito, si dispone in particolari "caivagnin", o cestini di vimini, i           
quali servono a dare ad essa non solo una forma, ma altresi' un                 
particolare disegno od aspetto esteriore; quella di pecora e'                   
denominata "pue'ina" o "pui'na" e si dispone in diversi modi. Il                
residuo dello siero, dopo averne ricavata la ricotta, vien detto                
"sco'tta", e si da' per nutrimento ai maiali".                                  
Nel 1955, sul "Pescatore reggiano", e' pubblicato un articolo di                
Mario Guardasoni su "Le pecore nell'Appennino Reggiano". In esso si             
legge un elogio della razza nostrana (o cornella bianca), come buona            
produttrice di latte per formaggio. Ma Collagna, Civago e Febbio                
erano orientati da un po' di tempo verso la razza massese per la                
buona produzione di latte. Nel 1955 nell'Appennino si contavano circa           
50.000 ovini, di cui piu' di quattro quinti erano ancora transumanti.           
Era una tradizione ancora dettata dalla necessita' dell'utilizzazione           
dell'esistente. L'urbanizzazione, che ha ridotto o isolato i pascoli            
dove poter "svernare", in particolare in pianura, e la mancanza di              
ricambio generazionale, spesso imposto piu' che da motivi demografici           
dal modesto riconoscimento sociale di tale lavoro, peraltro non                 
faticoso ma impegnativo, hanno via via determinato la progressiva e             
inesorabile contrazione della pastorizia transumante. Nell'Ottocento            
e, in particolare, ai primi del Novecento l'allevamento della vacca             
si avvia a scalzare il ruolo dominante della pecora nella zootecnia             
appenninica; questo, naturalmente, avviene in contemporanea alla                
diffusione del Parmigiano Reggiano e dei primi caseifici sociali nei            
quali si produce.                                                               
Le prime nebbie autunnali (cfr. L. Rondinini, 1987 op. cit.) per i              
pastori del crinale significavano l'inizio della transumanza: si                
abbandonavano i pesanti lavori dei campi e dei boschi e si partiva              
per la Maremma, per i porti di Genova, La Spezia, Livorno con                   
destinazione Isola d'Elba, Sardegna, Corsica, da un lato, ma anche              
verso le aree golenali del Po, dall'altro. Il ricercatore Filippo Re,           
nel suo "Viaggio agronomico per la montagna reggiana" del 1800, ci              
segnala come i pastori, pur guardati con timore dai contadini,                  
stabilivano con i proprietari terrieri rapporti duraturi nel tempo:             
in cambio dell'erba e dei pascoli essi davano ai proprietari latte e            
formaggio e i loro campi risultavano concimati dalle greggi stesse,             
rinchiuse in appositi recinti.                                                  
Fino agli anni Cinquanta - Settanta le attivita' pastorizie del                 
comprensorio reggiano hanno mantenuto una dimensione rilevante con              
alcuni elementi caratterizzanti: i pastori, tutti ancora autoctoni              
reggiani, praticavano con regolarita' la transumanza, prima nelle               
zone della Bassa reggiana, per poi allargarsi in zone sempre piu'               
ampie fino ad arrivare nel Mantovano. La maggiore parte realizzava un           
formaggio a carattere locale; le dimensioni medie delle aziende erano           
ridotte (raramente le greggi superavano le cinquanta unita') e la               
razza largamente presente era la massese insieme alle meno diffuse              
Cornella e Cornetta, razze, quest'ultime, oggi in via d'estinzione ma           
oggetto di progetti di recupero. Nel 1980 Alcide Spaggiari in: "Le              
opere e i secoli - Storia dell'artigianato a Reggio Emilia",                    
AGE-Grafico Editoriale, Reggio Emilia, 1980, pag. 251, scrive: "e'              
un'attivita' familiare, quindi artigiana nonostante alcuni tentativi            
di industrializzazione, la produzione del cacio pecorino, ancora                
notevole nei piccoli paesi dell'alto Appennino".                                
La storia recente                                                               
Nel 1982 in Appennino Reggiano si contavano ancora oltre 19.000                 
ovini, in prevalenza da latte. Venti anni piu' tardi, agli inizi                
degli Anni Duemila, questo numero si era ridotto al di sotto dei                
5.000 capi, in parte da carne. Dai dati ottenuti dagli ultimi tre               
censimenti dell'agricoltura si puo' osservare come nella Comunita'              
Montana dell'Appennino Reggiano, in un ventennio, il numero di                  
aziende con allevamenti ovini si sia ridotto di circa un terzo,                 
mentre il numero di animali allevati si e' ridotto di circa tre                 
quarti. Nel volgere di quattro lustri ha drasticamente chiuso un                
grandissimo numero di aziende sul crinale. Connessi all'abbandono               
dell'attivita' agropastorale si sono riscontrati i fenomeni dello               
spopolamento e del dissesto idrogeologico. E' quasi del tutto                   
scomparso il fenomeno del transumanza. Nell'agosto del 2004 Gabriele            
Arlotti (Tuttomontagna, n. 106, settembre 2004) intervista l'ultimo             
pastore transumante dell'Appennino: e' Santini Giorgio di Valbona di            
Collagna, ha 53 anni, vende il latte che produce a un caseificio                
privato e dichiara di essere intenzionato a smettere la transumanza             
nel volgere di pochi anni, sia per l'incombere dell'eta', sia per               
l'accresciuta normativa sanitaria che disciplina e restringe questa             
pratica.                                                                        
Con la transumanza in pochi anni si e' esaurito il millenario                   
fenomeno di una identita', tradizione, cultura ed economia che aveva            
costituito in larga parte le basi per la sussistenza e poi per lo               
sviluppo dell'uomo sul territorio appenninico. Merito, soprattutto,             
della produzione di un pecorino reggiano che, nei secoli, si era                
distinto per il sapore caratteristico dolce e diverso dal piu' famoso           
e vicino pecorino toscano.                                                      
E' doveroso rilevare come, a differenza del Parmigiano Reggiano, tra            
i pastori e' mancata una volonta' comune e condivisa di associarsi,             
dare un nome al proprio prodotto e metterlo sul mercato. D'altro                
canto, a livello associazionistico, non c'e' stato un input politico            
in tal senso. Se il mercato non ha fornito prezzi adeguatamente                 
remunerativi (per tutto il Novecento il Pecorino dell'Appennino e'              
costato meno del Parmigiano Reggiano), si e' drasticamente sentita la           
"concorrenza" dell'agricoltura finalizzata proprio alla produzione di           
Parmigiano Reggiano. Ne sono stati indice i tanti pastori e i piu'              
ancora numerosi figli di pastori che, rimasti in agricoltura, si sono           
spostati su questo tipo di produzione. Di contro, quest'evoluzione ha           
gettato le premesse per un tipo di attivita' imperniata                         
sull'allevamento stanziale semibrado, con pascoli locali, ed in minor           
misura su quello stallino. Non solo, si e' assistito all'aumento                
della dimensione media delle greggi; da allevamenti la cui                      
propensione era diretta prevalentemente all'autoconsumo                         
(latte/formaggio e carne) e poco alla produzione di beni destinati al           
mercato, si e' progressivamente passati ad allevamenti con 150-200              
unita', anche se il numero di pecore complessivamente allevate ha               
continuato a diminuire. Quest'evoluzione dell'attivita' di                      
allevamento ha creato in pianura le condizioni per l'insediamento di            
pastori sardi, che hanno portato con se' la razza sarda e la loro               
tecnologia di fabbricazione, nonche' l'intensivizzazione della                  
produzione e il progressivo aumento delle dimensioni aziendali. Cosi'           
non e' avvenuto in Appennino, dove sono rimasti attivi allevatori               
autoctoni, ancora depositari della cultura e della tradizione                   
originale dell'ovinicoltura originale di un tempo.                              
Per preservare questo prodotto tradizionale, potenziale fonte di                
reddito nell'avvenuto mercato globale, diversi soggetti hanno                   
intrapreso diverse azioni di salvaguardia, tutela e assistenza a                
partire dagli anni Settanta. Sul fronte del miglioramento delle                 
produzioni aziendali, in quegli anni, in Regione e nell'Appennino               
reggiano, era attiva l'Associazione Regionale Ovinicoltori (ARO), la            
quale, agendo anche da raccordo col mondo trasformazione, ha                    
contribuito a formare una prima coscienza sull'identita' e la                   
qualita' del prodotto. Grazie all'ARO, in particolare, negli                    
allevamenti sono stati messi in atto interventi di assistenza                   
tecnica, finalizzati all'alimentazione e alla gestione delle greggi,            
alla difesa sanitaria degli allevamenti (in particolare contribuendo            
al contenimento di zoonosi, come la brucellosi), al miglioramento               
della qualita' delle produzioni (con analisi sul latte di stalla e              
massale). Pur nella riduzione delle aziende degli anni Ottanta e                
Novanta, questi interventi di assistenza tecnica hanno avuto il                 
merito di mantenere gli allevamenti rimasti legati alle buone norme             
della pratica della pastorizia.                                                 
Negli anni Novanta il Consorzio per la Valorizzazione dei Prodotti              
dell'Appennino (CONVA) promuove un'azione fondamentale tesa alla                
tutela del nome. Con domanda in Regione, ai sensi della delibera di             
Giunta 1800/2000, il nome del Pecorino dell'Appennino Reggiano e'               
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (ai se'nsi del             
DLG 173/98 e DM 350/99), nell'elenco annuale nazionale dei prodotti             
agroalimentari tradizionali. In particolare cosi' il nome e' tutelato           
dall'uso privato (non puo' essere registrato da privati), puo' essere           
speso ai fini della promozione, puo' agevolarsi di alcune                       
deroghe,...                                                                     
Successivamente, promossi dallo stesso CONVA, dall'Unione Generale              
Coltivatori di Reggio Emilia, da ARO, con il sostengo della Provincia           
di Reggio Emilia sono realizzati dei progetti tesi a:                           
- consolidare l'identita' e le modalita' di produzione del Pecorino             
dell'Appennino Reggiano;                                                        
- perfezionare il disciplinare alla luce delle indicazioni recuperate           
dai pastori autoctoni e delle vigenti normative sanitarie;                      
- migliorare la qualita' della produzione del Pecorino dell'Appennino           
Reggiano.                                                                       
Riferimenti bibliografico-documentari allegati                                  
All. 1                                                                          
Filippo RE, Viaggio agronomico per la montagna reggiana e dei mezzi             
di migliorare l'agricoltura delle Montagne reggiane. Con appendice:             
Dell'agricoltura delle Alpi Apuane. Manoscritto edito a cura di Carlo           
Casali, in "Atti e memorie della Societa' agraria di Reggio                     
nell'Emilia. Nuova Serie. n. 4" Officine Grafiche Reggiane, Reggio              
Emilia, 1927. Il manoscritto originale e' conservato nella Biblioteca           
Municipale "Panizzi" di Reggio Emilia. Carte della famiglia Re, Mss.            
XCV. B. 6.                                                                      
All. 2                                                                          
Giovanni Allai, Vocabolario reggiano - italiano (ad integrazione del            
dizionario di Giovanni Denti), Tipografia Torreggiani e Compagni,               
Reggio Emilia, 1832, vol. 2, ad vocem "formaggio" "furmaj ed pegra"             
(cosi' anche Luigi Ferrari-Luciano Serra, Vocabolario del dialetto              
reggiano, Tecnograf, Reggio Emilia, 1989)                                       
All. 3                                                                          
A. Balletti - G. Gatti, Le condizioni dell'economia agraria nella               
provincia di Reggio nell'Emilia, Tipografia di Cesare Calderini e               
Figlio, Reggio Emilia, 1886. Pag. 78.                                           
All. 4                                                                          
Numa Ciripiglia (Luigi Camparini), Cucina tradizionale reggiana,                
Libreria Nironi e Prandi, Reggio Emilia, 1944, 12- 13, nota 1.                  
All. 5                                                                          
Alcide Spaggiari, Le opere e i secoli. Storia dell'artigianato a                
Reggio Emilia, AGE-Grafico Editoriale, Reggio Emilia, 1980, II ed.,             
pag. 251.                                                                       
All. 5 bis                                                                      
Gino Badini e Aurelia Fresta, Luciano Rondanini Alto Appennino                  
Reggiano, l'ambiente e l'uomo (Ed. Cassa di Risparmio), 1987, pag.              
104, 109; pag. 218.                                                             
Documenti archivistici allegati                                                 
All. 6                                                                          
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio comunale, Gridario,                
1618.                                                                           
All. 7                                                                          
Archivio privato Magawly, Via Dimitrov n. 43 - tel. 0522/280547,                
Cronaca di Nebbiara, 1796-1809 di don Giovanni Grossi (fotocopia                
dall'originale).                                                                
All. 8                                                                          
C. Roncaglia, Statistica generale degli Stati Estensi, Tipografia di            
Carlo Vincenzi, Modena, 1849, pp. 276-277.                                      
All. 9                                                                          
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio comunale, Carteggio                
amministrativo, titolo XXIX, rubrica 4, filza 30, 1877.                         
All. 10                                                                         
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio comunale, Carteggio                
amministrativo, titolo XXIX, rubrica 4, filza 30, 1877.                         
All. 11                                                                         
Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio comunale, Carteggio                
amministrativo, titolo XXIX, rubrica 4, filza 30, 1878.                         
4.5 Metodo di ottenimento                                                       
Il pecorino a pasta tenera deve essere prodotto a partire da latte              
intero di pecora pastorizzato.                                                  
Per il pecorino a pasta semidura puo' essere prevista, in particolare           
nei mesi estivi, una preventiva termizzazione del latte intero di               
pecora a 63 gradi per 5 min, ma e' vietata la pastorizzazione.                  
Per tutte le tipologie di formaggio e' indicato l'impiego di fermenti           
lattici selezionati o naturali in siero o in latte ovino ottenuto               
all'interno della zona di produzione.                                           
Il latte deve essere coagulato ad una temperatura compresa tra i 36             
gradi (per il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta tenera) e i            
39 gradi (per il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura)           
mediante aggiunta di caglio, di vitello o di agnello, liquido o in              
polvere onde ottenere la coagulazione del latte in un tempo di 20-30            
minuti.                                                                         
Il formaggio deve essere prodotto con una tecnologia caratteristica e           
nella lavorazione si provvede alla rottura della cagliata fino a che            
i granuli abbiano raggiunto le dimensioni di "granoturco", per il               
formaggio a pasta tenera, e di "chicco di riso", per quello a pasta             
semidura. Per la preparazione di quest'ultimo la cagliata potra'                
altresi' essere sottoposta ad un rialzo termico (semicottura) che               
puo' arrivare tra i 42 gradi - 46 gradi C in un tempo di 10-15                  
minuti.                                                                         
Terminata la rottura e la semicottura, la cagliata e' sottoposta a              
una giacenza sottosiero per un periodo di tempo variabile dai 5 (se a           
pasta tenera) ai 20 minuti (se a pasta semidura).                               
La cagliata viene messa in apposite forme per lo sgrondo del siero              
denominate "cascine" (dal dialetto del luogo, "cashiini"). Lo spurgo            
secondario e' favorito anche tramite pressatura manuale o apponendo             
le cascine le une sopra le altre e alternandole a intervalli                    
periodici. Altresi' e' indicata la stufatura: le forme sono poste in            
un ambiente idoneo a 38 gradi C per 60 minuti o a 30 gradi C per 5              
ore. La salatura tradizionale e' effettuata a secco e dura da 1                 
("Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta tenera) a 2 giorni                  
("Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura): avviene                  
salando ogni 12 ore i singoli piatti. Altresi' la salatura puo'                 
avvenire in salamoia per alcune ore. Il "Pecorino dell'Appennino                
Reggiano" e' messo a stagionare in idonei locali, naturali (per il              
Pecorino a pasta semidura) o condizionati (per il Pecorino a pasta              
tenera), a temperature adeguate alla fase di stagionatura e,                    
comunque, a umidita' relativa mai inferiore all'80%. Si effettuano              
periodiche rivoltature e lavaggi con acqua e sale o siero. Sulla                
crosta non si impiegano antifermentativi. Per il "Pecorino                      
dell'Appennino Reggiano" a pasta tenera dopo l'ultimo lavaggio e'               
caratteristica l'oliatura della crosta con olio di oliva o semi vari            
o aceto. Il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura,                
invece, dovra' formare la caratteristica muffa grigio verde che ne              
preserva la struttura e la bonta' della pasta.                                  
Il periodo di maturazione per il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a           
pasta tenera si protrae dai 30 giorni ai 3 mesi, per il "Pecorino               
dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura si protrae dai 3 ai 12 mesi           
(ed oltre).                                                                     
4.6 Legame                                                                      
Sono molteplici gli elementi che caratterizzano il Pecorino                     
dell'Appennino Reggiano, in virtu' di una tradizione consolidata e              
giunta sino ai giorni nostri. Essi uniscono fattori naturali e umani            
alla storia, alla cultura e alle tecniche di produzione del luogo che           
lo rendono esclusivamente ottenibile nel contesto produttivo                    
dell'Appennino Reggiano, rientrante nel territorio della Comunita'              
Montana dell'Appennino Reggiano. Innanzitutto, la prova di origine              
dimostra che il pecorino del luogo e' il primo prodotto della                   
zootecnia da allevamento nell'Appennino Reggiano. Nei secoli e'                 
prosecutore della cultura bizantina che si contrappone, con marcate             
differenze da zona a zona proprio nell'Appennino Reggiano, alla                 
cultura latina o romanizzata (dei monaci benedettini, ad esempio)               
tipicamente incentrata sulla vacca e sul maiale.                                
Il legame del formaggio di tipo pecorino all'Appennino reggiano e'              
citato da innumerevoli documenti storici. Nel 1886 A. Balletti e G.             
Gatti scrivono nel loro testo "Le condizioni dell'economia agraria              
nella provincia di Reggio Emilia" (Tipografia di Cesare Calderoni e             
Figlio, Reggio Emilia), a pagina 78, che a Reggio Emilia della razza            
pecorina e' indigena - probabilmente trattasi della Cornella reggiana           
n.d.r. - se ne distinguono due tipi: "nella zona piu' montuosa, dove            
e' maggiore il numero degli ovini". E piu' tardi, nel 1980, Alcide              
Spaggiari in: "Le opere e i secoli - Storia dell'artigianato a Reggio           
Emilia", AGE-Grafico Editoriale, Regio Emilia, 1980, pag. 251,                  
scrive: "E' un'attivita' familiare, quindi artigiana nonostante                 
alcuni tentativi di industrializzazione, la produzione del cacio                
pecorino, ancora notevole nei piccoli paesi dell'alto Appennino".               
Il metodo di ottenimento e' caratteristico e riconducibile                      
essenzialmente e storicamente a queste zone. Il Pecorino                        
dell'Appennino Reggiano si differenzia dal vicino Pecorino Toscano              
perche' la cagliata e' tradizionalmente sminuzzata a dimensioni piu'            
fini. "Cascine" e' il nome storico col quale ancora oggi sono                   
chiamate in Appennino le caratteristiche formelle in cui si mette la            
cagliata appena estratta. Inoltre la salatura delle formelle avviene            
tradizionalmente o a secco o in salamoia, cosi' come da decenni si              
esegue per il Parmigiano Reggiano, che in Appennino ha proprio parte            
del comprensorio di produzione. Una tipicita': prima ancora                     
dell'aggiunta del caglio il latte e' preparato con l'aggiunta di                
fermenti (cosi' come avviene per il Parmigiano Reggiano da cui si e'            
ereditato questo processo), come quelli naturali del latte o del                
siero. L'impiego di latto o siero fermenti, che puo' risultare                  
inusuale per i formaggi di tipo pecorino, cosi' come pure la salamoia           
delle cascine, trovano una specifica spiegazione della condivisione             
territoriale del Pecorino dell'Appennino Reggiano con l'areale di               
produzione del Parmigiano Reggiano. Formaggio, quest'ultimo che, da             
fine Ottocento ai primi del Novecento, ha introdotto proprio questi             
elementi caratterizzanti il processo produttivo (sieroinnesto) e la             
stagionatura (salamoia in sostituzione della salatura a secco).                 
Infatti, il Pecorino dell'Appennino Reggiano e' prodotto interamente            
al comprensorio di produzione del Parmigiano Reggiano di cui,                   
indirettamente, ha usufruito dei benefici tecnologici introdotti nel            
processo produttivo negli ultimi 150 anni. Queste informazioni sono             
confermate dall'indagine (inedita) di studio condotta dal Consorzio             
per la valorizzazione dei prodotti dell'Appennino nel 2001 dal titolo           
"Valorizzazione dei prodotti della filiera ovina in Appennino": Fase            
2 - Acquisizione delle informazioni sui processi produttivi e sul               
prodotto, indagine condotta presso 20 pastori-trasformatori                     
dell'Appennino Reggiano.                                                        
Le caratteristiche del prodotto individuate nel disciplinare sono               
confermate dallo studio (inedito) condotto dall'Universita' di                  
Bologna e dall'Unione Generale Coltivatori dal titolo "Tipizzazione             
qualitativa e valorizzazione del Pecorino dell'Appennino Reggiano -             
Anno 2003", AA.VV. Esso rileva come le caratteristiche salienti di              
questo prodotto in Appennino sono:                                              
- aspetto esterno: crosta di colore bianco-giallo pastello con varie            
tonalita'; per il tipo a pasta semidura di colore tendente piu' o               
meno al bruno, in funzione della durata della stagionatura e della              
presenza di muffe grigio-verdi;                                                 
- colore della pasta: dal bianco a color paglierino con l'avanzare              
della stagionatura. E' considerata segno di tipicita' la presenza di            
eventuali riflessi sottocrosta (in controluce) verdi;                           
- struttura della pasta per il tipo a pasta tenera: pasta a struttura           
compatta, moderatamente resistente al taglio, con eventuale moderata            
occhiatura anche non regolarmente distribuita;                                  
- struttura della pasta: pasta a struttura compatta e tenace al                 
taglio per il tipo a pasta semidura con eventuale minuta occhiatura             
non regolarmente distribuita;                                                   
- sapore: fragrante accentuato, dolce, leggermente salato e                     
debolmente piccante quello a pasta semidura;                                    
- grasso sulla sostanza secca: per il prodotto stagionato non                   
inferiore al 40% e per il prodotto fresco non inferiore al 45%.                 
Queste caratteristiche medie sono cosi' riportate nel disciplinare di           
produzione.                                                                     
Queste caratteristiche sono individuate anche nella ricerca                     
"Caratterizzazione e valorizzazione del formaggio Pecorino                      
dell'Appennino Reggiano". Autori Castagnetti G.B., Arlotti G.,                  
Bertolini L. Pignedoli S., atti 16 congresso nazionale Sipao                    
(Societa' italiana di patologia e allevamento degli ovini e dei                 
caprini), pag. 254 Siena, 29 settembre, 2 ottobre 2004.                         
L'inequivocabile legame del profilo sensoriale del Pecorino                     
dell'Appennino Reggiano col comprensorio individuato e' dimostrato              
nella tesi di laurea "Il Pecorino dell'Appennino Reggiano:                      
individuazione del profilo sensoriale tipico", Cerioli V., relatore             
Fava P., correlatori Iotti M., Carini G., 2003-2004, Facolta' di                
Agraria, Corso di studio in Scienze e Tecnologie agrarie, Universita'           
degli Studi di Modena e Reggio.                                                 
Le qualita' organolettiche e la bonta' del Pecorino dell'Appennino              
Reggiano sono testimoniate anche da documenti storici: nel 1886 A.              
Balletti e G. Gatti nel loro testo "Le condizioni dell'economia                 
agraria nella provincia di Reggio Emilia" (Tipografia di Cesare                 
Calderoni e Figlio, Reggio Emilia) a pagina 78 spiegano che a Reggio            
Emilia la razza pecorina e' indigena - probabilmente trattasi della             
Cornella reggiana n.d.r. - e se ne distinguono due tipi: "nella zona            
piu' montuosa, dove e' maggiore il numero degli ovini (...) il                  
formaggio pecorino in queste localita' gode anche di qualche credito            
ed e' di facile smercio".                                                       
E che si tratti di particolarita' nostrane lo conferma, 1944, Luigi             
Camparini, in Cucina tradizionale reggiana, Libreria Nironi e Prandi,           
Reggio Emilia, 1944, pag. 12-13 e nota 1, che scrive nel Reggiano:              
"Oltre al grana si fanno da noi altre specie di formaggi che sono,              
anch'essi, autentiche particolarita' nostrane. (...)".                          
Sul fatto che le particolari condizioni naturali dell'Appennino                 
Reggiano conferiscono al prodotto le sue peculiari caratteristiche              
qualitative e' emblematico il documento storico lasciato da Filippo             
Re. Nel 1800 Filippo Re (Reggio Emilia, 1767-1817, illustre agronomo            
che insegno' in diverse Universita' italiane) nel suo testo                     
documentativo "Viaggio Agronomico per la montagna reggiana" a pagina            
46 della sua opera, richiama specificatamente la produzione del                 
formaggio e scrive testualmente:: "...Per l'ottima qualita' dei                 
pascoli hanno belli animali bovini ed armento lanuto che fornisce un            
formaggio squisito". In fatto di forma le caratteristiche peculiari             
di forma del Pecorino dell'Appennino Reggiano risultano essere:                 
- la forma cilindrica a facce piane con scalzo leggermente convesso;            
- le dimensioni: diametro delle facce da 15 a 22 cm, altezza dello              
scalzo da 7 a 11 cm con variazioni in piu' o in meno in entrambe le             
caratteristiche in rapporto alle condizioni tecniche di produzione              
fermo restando che lo scalzo non deve mai superare la meta' del                 
diametro;                                                                       
- il peso: da 1 a 2,5 kg.                                                       
Queste dimensioni medie sono confermate dall'indagine di studio (Fase           
2 - Acquisizione delle informazioni sui processi produttivi e sul               
prodotto) condotta dal Consorzio per la valorizzazione dei prodotti             
dell'Appennino nel 2001 dal titolo "Valorizzazione dei prodotti della           
filiera ovina in Appennino": detta indagine e' condotta presso 20               
pastori-trasformatori dell'Appennino. Dimensioni ridotte che sono               
confermate, nel 1944, da Luigi Camparini, Cucina tradizionale                   
reggiana, Libreria Nironi e Prandi, Reggio Emilia, 1944, pag. 12-13 e           
nota 1, che nel Reggiano: "...Oltre al grana si fanno da noi altre              
specie di formaggi che sono, anch'essi, autentiche particolarita'               
nostrane. (...) formaggetti si fanno col latte di pecora, ma                    
integrale, durante tutto l'anno - non potendosi fare la lavorazione             
cumulativa del latte di pecora; essi sono indicati col nome 'di                 
furmaji'n ed pe'gra'".                                                          
Il "Pecorino dell'Appennino Reggiano" a pasta semidura si                       
caratterizza per le caratteristiche muffe grigio-verdi, di ceppi                
indigeni, sviluppate sulla crosta: preservano la pasta che deve                 
stagionare molti mesi. Nella pasta, dal bianco al giallo paglierino,            
riflessi verdi sono indicatori di tipicita'. Entrambi questi elementi           
sono confermati dallo studio condotto, nel 2003, dall'Universita' di            
Bologna e dall'Unione Generale Coltivatori dal titolo "Tipizzazione             
qualitativa e valorizzazione del Pecorino dell'Appennino Reggiano -             
Anno 2003".                                                                     
Tutte queste informazioni consentono di dimostrare che il Pecorino              
dell'Appennino Reggiano puo' essere prodotto esclusivamente nella               
zona identificata.                                                              
4.7 Struttura di controllo:                                                     
Nome: Dipartimento Controllo Qualita' P.R. Srl, indirizzo: Via                  
Kennedy n. 18/a - 42100 Reggio Emilia telefono: 0522/93 42 66 - fax:            
0522/700260 - e-mail: dcq-pr@dcq-pr.it.                                         
t4.8 Etichettatura                                                              
Il Pecorino dell'Appannino Reggiano e' identificato dal marchio                 
omonimo raffigurato da una testa di muflone stilizzata, coronata dal            
nome "Pecorino dell'Appennino Reggiano". Detto marchio e' riprodotto            
sull'etichetta di carta apposta su uno dei due piatti della forma. Il           
marchio "Pecorino dell'Appennino Reggiano" puo' essere impresso sulla           
carta di confezionamento e su altri mezzi di contenimento e di                  
presentazione e comunicazione, purche' sia rispettato quanto                    
prescritto dal presente regolamento.                                            
4.9 Condizioni nazionali -.                                                     

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ultima modifica 2023-05-19T22:22:53+02:00

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