n.44 del 12.02.2014 periodico (Parte Seconda)

Oggetto n. 2876 - Risoluzione proposta dai consiglieri Barbati, Casadei, Mumolo, Grillini, Carini e Sconciaforni per impegnare la Giunta a porre in essere azioni nei confronti del Governo volte a disciplinare la materia riguardante il testamento biologico, sollecitare le amministrazioni comunali ad istituire i relativi registri, sensibilizzando inoltre il personale sanitario all'utilizzo dei connessi dispositivi terapeutici al fine di garantire la dignità della persona umana anche nella sua fase terminale

L’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna

Premesso che

come noto e per quanto specificamente rileva in tal sede, il progresso medico-scientifico ha condotto allo studio e all’individuazione di tecniche che, oltre ad aver determinato il positivo incremento delle possibilità di guarigione rispetto a diverse patologie, consentono di prolungare artificialmente la vita del paziente affetto da patologie gravi e degenerative;

tale prolungamento artificiale della permanenza in vita del paziente si traduce, in alcune peculiari situazioni limite, in una (spesso penosa) protrazione delle sofferenze del malato;

proprio per queste ragioni, nel caso di malattie degenerative irreversibili si pone il problema di riconoscere al paziente il diritto di formulare direttive ed indicazioni sui futuri trattamenti sanitari da praticare nel periodo di sopravvenuta incapacità;

in particolare, si pone la questione - di ordine giuridico, sociale e bioetico - della rilevanza della dichiarazione con cui il soggetto abbia formulato specifiche disposizioni di volontà volte ad escludere trattamenti salvifici artificiali che lo mantengano in vita in stato vegetativo clinicamente valutato come irreversibile (c.d. testamento biologico).

Considerato che

il Tribunale di Roma (ord. 16 dicembre 2006, c.d. "caso Welby") ha statuito che, ancorché nell’ordinamento giuridico possa configurarsi il diritto di un paziente alla consapevole ed informata autodeterminazione nella scelta delle terapie c.d. "salvavita" (diritto all’autodeterminazione terapeutica), in concreto tale diritto non è tutelabile a causa della mancata definizione, a livello normativo, del concetto e dei limiti del c.d. "accanimento terapeutico". Ulteriormente, i giudici di merito hanno affermato che nel bilanciamento tra il diritto all’autodeterminazione terapeutica, da un lato, e il diritto alla conservazione dell’integrità personale e alla vita, dall’altro, la prevalenza deve essere accordata a quest’ultimo a prescindere dalla volontà del paziente;

tali statuizioni hanno suscitato obiezioni e critiche - della dottrina giuridica e medica, di parte consistente del firmante politico e dell’opinione pubblica - con cui si è rilevato che, ragionando nei suddetti termini, il diritto alla vita verrebbe a trasformarsi in un dovere di vivere, dovere che non trova e non può trovare cittadinanza in un ordinamento giuridico costituzionale ispirato al principio personalistico e al rispetto della persona umana in qualsiasi momento della vita; proprio tale concezione individualistica impone il pieno rispetto delle determinazioni volitive assunte dal soggetto in ordine alle cure a cui sottoporsi o non sottoporsi, disposizioni di volontà orientate dal fascio di convinzioni etiche, culturali, filosofiche e religiose che caratterizza la percezione che ciascuno ha di sé;

tali osservazioni sono state condivise dalla sentenza 21748/07, con cui la Cassazione, nella nota "vicenda Englaro", ha espressamente statuito che deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrifico del bene vita. In particolare, come emerge dalla citata pronuncia, di fronte al rifiuto del paziente di sottoporsi a cure "salvavita", sicuramente vi è spazio per una strategia della persuasione da parte del personale sanitario, anche al fine di prestare la massima solidarietà e il massimo supporto in un momento di debolezza e sofferenza; sicuramente è necessario verificare che la determinazione volitiva del soggetto sia autentica, informata, personale ed attuale; ma è altrettanto certo che, ove sussistano tali requisiti, non è possibile disattendere o eludere il rifiuto alle cure del soggetto in nome di un presunto dovere di curarsi da intendersi come presunto principio di ordine pubblico;

da tali considerazioni, come peraltro sottolineato dai giudici di legittimità nella citata pronuncia, il diritto alla salute (che può essere limitato solo nei casi espressamente previsti dalla legge, ex art. 32, comma 2, Cost.), come tutti i diritti di libertà, è tutelato sia nel suo risvolto positivo come diritto ad essere curati sia nel suo risvolto negativo come diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza in coerenza con le proprie convinzioni, finanche di lasciarsi morire. In altri termini, l’art. 32 Cost. non garantisce il diritto a morire, bensì il diritto a che il naturale evento morte si attui con modalità coerenti all’autocoscienza della dignità personale;

peraltro, è da precisare che il rifiuto delle terapie salvifiche, con conseguente decesso del paziente, non integra un’ipotesi di eutanasia, consistendo quest’ultima nell’abbreviare la vita mediante un comportamento positivo; diversamente, nel caso di rifiuto delle cure da parte del paziente, si ha un atteggiamento di scelta a cui è speculare un comportamento negativo del paziente e del sanitario, affinché la malattia segua il suo naturale decorso (patologico);

nelle ipotesi di specie, in cui vi sia un rifiuto alle cure da parte del paziente, nemmeno è configurabile una responsabilità (penale e civile) del sanitario. La responsabilità del medico per omessa cura, infatti, può sussistere fin tanto che esista per il medesimo l’obbligo giuridico di intraprendere o continuare la terapia salvifica, mentre è ontologicamente non configurabile quando tale obbligo viene meno: segnatamente, l’obbligo di prestare l’assistenza sanitaria salvifica, fondandosi sul consenso del malato, cessa - e specularmente insorge il dovere di rispettare la volontà del paziente - quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto del paziente;

ulteriormente, proprio sulla base di tali assunti, la giurisprudenza (nel c.d. "caso Englaro"; sent. 21748/07 cit.) ha riconosciuto che, anche nelle ipotesi in cui il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà a causa dello stato patologico in cui versa e, prima di cadere in tali condizioni, non abbia espresso alcuna determinazione anticipata in ordine alle terapie da praticarsi nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in stato di incoscienza, ciò non preclude al suo rappresentante legale (al tutore) di domandare l’interruzione delle cure, che può essere disposta solo sussistendo due requisiti: che lo stato vegetativo sia clinicamente irreversibile e non sussista la minima possibilità di recupero della coscienza e della percezione del mondo esterno; che sia accertata in modo inconfutabile la presunta volontà del paziente (la decisione che egli avrebbe assunto se fosse stato cosciente) esaminando la sua condotta di vita e il complesso delle sue convinzioni. Sussistendo tali presupposti, è quindi da riconoscere al rappresentante legale il potere-dovere di rifiutare, in nome e per conto del paziente rappresentato, le cure salvavita o le terapie che mantengano in vita artificialmente il soggetto;

peraltro, l’art. 408, comma 1, c.c. prevede che "L’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata", con ciò consentendo che l’interessato possa dare indicazioni (all’amministratore di sostegno) in merito alle terapie che intende o non intende accettare nell’eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità.

Evidenziato che

dalle suddette considerazioni emerge chiaramente la necessità di predisporre un intervento normativo, a livello nazionale, che disciplini giuridicamente in modo puntuale ed uniforme l’istituto del c.d. "testamento biologico" e le relative modalità attuattive;

alcuni comuni della Regione (tra cui Rimini, Reggio Emilia e Ferrara) hanno già istituito il registro dei testamenti biologici, che consente l’iscrizione delle dichiarazioni anticipate anche indicando un fiduciario garante dell’attuazione delle determinazioni volitive.

Visti

la delibera di Giunta regionale 9 novembre 2009, n. 1706, recante "Individuazione di aree di miglioramento della qualità delle cure e integrazione delle politiche assicurative e di gestione del rischio";

i numerosi d.d.l. presentati in sede governativa;

la normativa elaborata da diversi Paesi (Paesi Bassi, Germania, Inghilterra, Svizzera, Stati Uniti), in cui il "testamento biologico" è stato giuridicamente disciplinato;

la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (Oviedo, 1997), in cui si prevede che "i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione": da precisare che nonostante tale Convenzione sia stata firmata dall'Italia (nel 2001) e la sua ratifica da parte del Presidente della Repubblica sia stata autorizzata con Legge 28 marzo 2001, n. 145, il Governo non ha ancora adottato i decreti legislativi delegati attuativi e di adeguamento dell'ordinamento interno al Trattato internazionale previsti dall'art. 3 della citata L. 145/2001.

Impegna la Giunta

a sollecitare il Governo all’adozione di un atto legislativo che disciplini compiutamente la materia, attivandosi a tal fine, per quanto di competenza, nelle opportune sedi istituzionali e politiche;

a sollecitare le amministrazioni comunali all’istituzione del registro dei testamenti biologici, anche mediante l’adozione di una delibera regionale di indirizzo e direttiva;

nelle more dell’entrata in vigore della legge nazionale che - auspicabilmente - disciplini l’istituto in esame, a sensibilizzare il personale sanitario competente in ordine all’utilizzo di dispositivi terapeutici per la cura palliativa dei soggetti che versano in uno stato patologico grave prossimo al fine vita, ivi compresa la somministrazione di sostanze stupefacenti dotate di proprietà terapeutiche secondo la normativa vigente, ciò al fine di garantire la dignità della persona umana anche nella sua fase terminale.

Approvata a maggioranza dei presenti nella seduta antimeridiana del 14 gennaio 2014.

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