n.79 del 20.03.2019 periodico (Parte Seconda)

RISOLUZIONE - Oggetto n. 8027 - Risoluzione per impegnare la Giunta a sollecitare il Governo affinché addivenga ad un accordo con le Regioni in materia di aspetti organizzativi e amministrativi dei Centri per l’impiego, a chiedere chiarimenti su come il Governo vorrebbe coordinare i dipendenti Anpal e dei Centri per l’impiego e quali sistemi informativi intende mettere a disposizione per favorire l’interoperabilità, nonché a chiedere di ripensare il reddito di cittadinanza quale misura universalistica basata sulla residenza e a modificare la Legge n. 4 del 2019 e a rivedere il sistema sanzionatorio legato alle false o incomplete dichiarazioni per l’ammissione al reddito di cittadinanza. A firma dei Consiglieri: Caliandro, Mori, Poli, Iotti, Boschini, Marchetti Francesca, Mumolo, Benati, Ravaioli, Zoffoli, Bessi, Calvano, Zappaterra, Bagnari, Montalti, Tarasconi, Rontini

L’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna

Premesso che

il decreto-legge 28 gennaio n. 4 ha introdotto il Reddito di cittadinanza, definendolo quale “misura di reinserimento nel mondo del lavoro che serve a integrare i redditi familiari”, avente quali obiettivi quelli di migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, aumentare l’occupazione e contrastare la povertà e le disuguaglianze.

Il nuovo beneficio si divide tra integrazione al reddito e contributo per la casa; tra i requisiti di reddito viene fissato un tetto Isee a 9.360 euro e un tetto al reddito familiare di 6mila euro (12.600 euro per le famiglie numerose); il patrimonio immobiliare, esclusa la prima casa, non deve superare i 30.000 euro, quello mobiliare i 6mila euro per un single, che arrivano a 20mila euro se nel nucleo ci sono persone disabili.

La platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza è formata da 1,3 milioni di famiglie, il 20% straniere (con permesso di lungo soggiorno e residenza in Italia da 10 anni, gli ultimi due continuativi).

Tra le condizioni stabilite per poter usufruire del beneficio vi è l’accettazione delle offerte di lavoro: nei primi 12 mesi di fruizione è ritenuta congrua una offerta di lavoro «entro 100 chilometri di distanza dalla residenza» o «comunque raggiungibile in cento minuti con i mezzi pubblici»; per la seconda offerta il limite sale a 250 km, la terza offerta va accettata in tutta Italia, con una compensazione delle spese di trasferimento (3 mesi di reddito). Dopo il primo anno non si potrà più rifiutare alcuna offerta «congrua» (dunque entro 250 km), pena la decadenza.

In un Paese in cui il 30% dei contribuenti - pari a 12.047.965 persone - dichiara meno di 10.000€ all’anno, l’approvazione dell’emendamento M5S in base al quale la congruità dell’offerta di lavoro al fine dell’obbligo di accettazione dell’impiego si attesta su uno stipendio superiore almeno del 10% all’importo del Reddito di cittadinanza (vale a dire 11.154€ annui), rischia di avvantaggiare ingiustamente i fruitori del sussidio rispetto ad un’ampia fascia di lavoratori che possono contare soltanto sulle proprie entrate salariali. Non solo, ma l’ulteriore corto circuito nasce dal fatto che il limite attuale della no tax area si ferma ad 8.000€, per cui si rischia che, a parità di entrate, l’imposizione fiscale sia a vantaggio di chi percepisce il sussidio rispetto a chi ha entrate da lavoro.

Evidenziato che

concepito per rispondere esclusivamente alla sussistenza dei soggetti che vivono nella povertà assoluta - che in Italia ammontano circa al 50% della platea degli indigenti - le eccezioni introdotte al reddito di cittadinanza sembrano intaccare ulteriormente il numero dei beneficiari che, stanti le ultime notizie, non supereranno i 2,7 milioni di persone e 1,3 milioni di nuclei familiari.

L’esclusione dei centri sociali dei comuni e delle associazioni caritatevoli, luoghi dove gli emarginati normalmente si rivolgono per cercare aiuto, si tradurrà nella estromissione dei veri poveri e delle famiglie bisognose che a questi di norma si rivolgono, come denunciato da Alleanza contro la povertà.

Ulteriore contrazione della platea degli aventi diritto è dettata anche dalla scelta, di dubbia costituzionalità, di fare perno sulla cittadinanza e non sulla residenza, valida come criterio d’accesso solo se superiore ai 10 anni laddove non si sia cittadini: il Presidente dell’ANCI De Caro ha evidenziato la difficoltà a ricostruire la residenza decennale, specie se ci sono stati cambi da una città ad un’altra.

Le coperture del Reddito di cittadinanza appaiono incerte per un provvedimento avente natura strutturale - col rischio che la riforma venga finanziata in deficit in una condizione dei conti pubblici già molto precaria e preoccupante, come attestato dai principali organi di controllo nazionali e internazionali- e, oltre a ciò, l’ammontare stesso delle risorse stanziate per il triennio 2019-2021, pari rispettivamente a 6,11 miliardi, a 7,77 miliardi e a 8,02 miliardi, rende impossibile l’obiettivo dichiarato di dare alle persone indigenti un reddito di almeno 780 euro mensili: conti alla mano, il reddito si attesterebbe a 472 euro a livello familiare e a 156 euro a livello individuale.

L’aver riferito la misura al nucleo familiare e non al singolo individuo crea profili strutturali di ineguaglianza di trattamento, che penalizzano in modo significativo e irrazionale le famiglie più numerose, dove si concentra la povertà, rendendo del tutto inefficace la previsione di una scala di equivalenza.

Molte delle famiglie che accederanno al Reddito di Cittadinanza sono in condizioni di disagio sociale, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa: la povertà è infatti un concetto multidimensionale che prende in considerazione diversi fattori: la salute propria e dei famigliari, la presenza di dipendenze, l’educazione, l’alimentazione, ecc. Una buona parte degli inoccupati avranno verosimilmente bisogno di assistenza sociale prima di poter essere inseriti nel mondo del lavoro.

Nel provvedimento del Governo manca del tutto la previsione di un’offerta di servizi sociali di qualità e non vi è traccia di una riforma del sistema di welfare che vada nella direzione necessaria a costruire un sistema integrato tra l’erogazione del beneficio economico e le altre misure di welfare sociale, così da definire un ventaglio di interventi mirati e diversificati a seconda della necessità delle persone.

La previsione normativa introduce sanzioni specifiche per nuove fattispecie di reato, consistenti nelle false dichiarazioni e nella mancata comunicazione delle variazioni incidenti sui requisiti richiesti, che si affiancano al reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640bis del codice penale), quasi a voler etichettare i possibili beneficiari come probabili approfittatori.

Le sanzioni previste per il beneficiario che produce false dichiarazioni non sono congrue rispetto, ad esempio, a quelle previste per reati commessi da pubblici ufficiali che prevedono pene della reclusione da 1 a 6 anni (es. falsità materiale in atto pubblico, art. 476 c.p.) o considerando che la pena massima per omicidio colposo è di 5 anni.

Sottolineato che

il Reddito di cittadinanza, concepito come misura di workfare e non di welfare, rischia di contrapporre integrazione sociale ed integrazione lavorativa, contravvenendo così anche alla Risoluzione europea dell’8 aprile 2009 in cui si afferma che “il coinvolgimento attivo non deve sostituirsi all’inclusione sociale e chiunque deve poter disporre di un reddito di cittadinanza e di servizi sociali di qualità a prescindere dalla propria partecipazione al mercato del lavoro” incentivando assunzioni sotto-qualificate a costi ridotti per le imprese, dando la possibilità ai datori di lavoro di ricevere sgravi contributivi se assumono un lavoratore che percepisce il reddito di cittadinanza e non lo licenziano nei primi 24 mesi, tranne che per giusta causa.

Una misura di sostegno al reddito dovrebbe prevedere la necessità di incentivare la libertà della scelta lavorativa come misura di contrasto dell’esclusione sociale e della ricattabilità dei soggetti in difficoltà, così da garantire la “congruità dell’offerta di lavoro” e non “l’obbligatorietà del lavoro purché sia”, mentre la misura del governo prevede una fortissima condizionalità nei parametri che definiscono un’offerta “congrua”, imponendo così di fatto al beneficiario di accettare qualunque offerta venga proposta anche a grandi distanze dalla propria residenza, pena la perdita del reddito.

La Regione Emilia-Romagna ha istituito il Reddito di solidarietà (Res) - attivo dal 18 Settembre 2017- quale misura che associava a un trasferimento monetario contro la povertà un programma di attivazione e reinserimento sociale e lavorativo dei beneficiari, con caratteristiche pensate e costruite in stretto parallelo con il Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA), introdotto dal governo nazionale nel 2015 e in vigore dal Settembre 2016. Tuttavia, poiché la misura nazionale (SIA) presentava vincoli e requisiti di accesso particolarmente rigidi e stringenti, rivolgendosi alle sole famiglie con almeno un minore o un figlio adulto disabile, oppure a quelle in cui fosse presente una donna in stato di gravidanza accertata, il Reddito di solidarietà ha cercato di rispondere al rischio della limitata applicazione della misura nazionale, allargando la platea dei destinatari in Emilia-Romagna e, soprattutto, includendo le famiglie di anziani soli o con figli maggiorenni, particolarmente numerose in Emilia-Romagna. Sono stati inoltre eliminati i requisiti familiari e lasciati solo quelli relativi alla soglia di reddito (3000 Euro Isee) e della residenza storica di minimo 2 anni per cittadini italiani e stranieri.

Il RES dell’Emilia-Romagna ha rappresentato uno strumento di lotta alla povertà completamente nuovo e mai sperimentato. Per la progettazione di una misura di questo tipo sono serviti: uno studio di fattibilità sulle condizioni socio-economiche dell’Emilia-Romagna corredato dall’elaborazione di stime previsionali sui tassi di povertà; una legge regionale e successive modifiche in parallelo all’evoluzione della normativa nazionale; due Protocolli d’intesa con il Ministero del Lavoro e con il Ministero dell’Economia; una convenzione con INPS per l’erogazione del sussidio; l’elaborazione di un software regionale per l’immissione delle domande; attività di formazione del personale appartenente agli oltre 300 comuni della Regione.

L’Emilia-Romagna con il reddito di solidarietà, universalistico e per tutti, ha anticipato ciò che poco dopo è avvenuto a livello nazionale, quando nel febbraio 2018 il Governo ha approvato il primo Piano nazionale contro la povertà, rendendo obbligatoria per i Comuni l’erogazione del Reddito di inclusione (REI), definito quale “livello essenziale delle prestazioni”.

La modifica intercorsa a livello nazionale, che ha eliminato tutti i requisiti familiari per accedere al REI dal 1° giugno 2018, ha imposto un aggiornamento del RES emiliano-romagnolo riconfigurandone l’impianto, dato che le platee delle due misure, nazionale e regionale, sono diventate di fatto sovrapponibili: pertanto, l’8 giugno 2018 è stata approvata la LR 7/2018 “Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 19 dicembre 2016 n. 24”, con cui si è previsto che il Res non fosse più una misura alternativa alla misura nazionale, bensì una misura integrativa che ne rafforzava la portata per i soli residenti In Emilia-Romagna. Un vero e proprio reddito minimo contro la povertà che eleva il beneficio economico per i richiedenti (da 80 a 110 euro al mese) e che fissa una soglia minima sotto al quale non si scende, accompagnando le persone in un percorso di reinserimento lavorativo e sociale con una vera e propria presa in carico dei soggetti disagiati, configurandosi dunque non come una mera misura assistenzialistica.

Considerato che

il decreto presuppone la necessità di rafforzare i servizi ed il sistema dei centri per l’impiego pubblici, ma la riforma ed il rafforzamento dei servizi e dei centri per l’impiego è sotto-finanziata e non è stata ancora definita nelle sue modalità applicative.

Le Regioni, titolari della competenza a gestire quei centri per l’impiego che saranno chiamati ad applicare il reddito di cittadinanza, lamentano un iter legislativo che non le ha minimamente coinvolte e che ha generato estrema confusione. In particolare, non si comprendono le modalità con cui si intenda procedere alle annunciate 10.000 assunzioni dei cosiddetti navigator, che coinvolgeranno sia l’Anpal (Agenzia nazionale politiche attive del lavoro) che i Centri per l’impiego (6.000 assunti dall’Agenzia, 4.000 dai Centri per l’impiego).

Le Regioni, in sede di Conferenza delle Regioni, hanno chiesto trasparenza, chiarezza e, soprattutto, il rispetto delle reciproche competenze circa la titolarità delle future assunzioni, dato che l’Anpal può assumere a chiamata diretta, mentre le Regioni – e i relativi Centri per l’impiego - dovrebbero bandire specifici concorsi pubblici.

Nel decreto è prevista la contrattualizzazione di 6mila navigator da parte dell’Anpal, ma per soli due anni, con il rischio che si tratti di una nuova immissione di precari nell’agenzia con “futura promessa di stabilizzazione” da parte delle Regioni.

Il reddito di cittadinanza di cui al decreto-legge n. 4/2019 è di fatto un mero sussidio di disoccupazione, mentre il reddito di solidarietà dell’Emilia-Romagna configurava una reale misura di contrasto alla povertà, in grado di preparare al reinserimento nel mondo del lavoro e di contrastare l’esclusione sociale.

Il decreto-legge finisce per mescolare e confondere le politiche di contrasto alla povertà con le politiche di sostegno al lavoro.

Impegna la Giunta

a sollecitare il Governo affinché addivenga ad un accordo con le Regioni, in sede di Conferenza Stato-Regioni, prima della conversione in legge del decreto-legge n. 4 del 2019, dato che, per quanto attiene gli aspetti organizzativi ed amministrativi - e pertanto ai modelli di erogazione - le politiche attive del lavoro rientrano nella competenza delle Regioni e non dello Stato e dunque il Governo nazionale non può imporre dipendenti nei centri per l’impiego.

A chiedere chiarimenti al Governo su come vorrebbe coordinare i dipendenti Anpal e i dipendenti dei centri per l’impiego, aventi modalità di chiamata diverse, contratti diversi, datori di lavoro diversi, stipendi diversi e compiti diversi.

A chiedere chiarimenti al Governo in merito a quali sistemi informativi intende mettere a disposizione degli operatori e in quali tempi, favorendo l’interoperabilità tra sistemi nazionali e sistemi regionali, al fine di evitare ritardi e rallentamenti nell’attuazione della legge.

A chiedere al Governo di ripensare il reddito di cittadinanza attraverso misure correttive, quale misura individuale e veramente universalistica, basata sulla residenza e non sulla cittadinanza, così da non tralasciare intere fasce di popolazione in difficoltà che oggi resterebbero escluse.

Ad agire in ogni sede perché il Governo modifichi il decreto Legge n. 4/2019 in modo che il Reddito di cittadinanza non si traduca in un mero sussidio economico, ma vada nella direzione di garantire alle persone in difficoltà la dignità di potersi reinserire nel mondo del lavoro attraverso una presa in carico integrata che sappia garantire percorsi personalizzati di formazione, di politica attiva del lavoro e di accompagnamento al lavoro, coniugati a misure di natura sociale e, se necessario, di natura sanitaria.

A portare la no tax area da 8mila a 10mila euro, così che, a parità di guadagno, sia imposta la medesima aliquota fiscale.

A rivedere il sistema sanzionatorio in ossequio al principio di proporzionalità, che non può ammettere che le false o incomplete dichiarazioni rilasciate ai fini del Reddito di cittadinanza possano essere sanzionate quanto o maggiormente del reato di falso in atto pubblico commesso da pubblico ufficiale o dell’omicidio colposo.

Approvata a maggioranza dei presenti nella seduta pomeridiana del 27 febbraio 2019

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